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Il paese delle spose infelici - Perché si

Pubblicato il 11 novembre 2011 da Alessandro Izzi
VOTO:


Il paese delle spose infelici - Perché si

Il contesto è quello scipito e stinto degli anni ’90.
L’AIDS ha già fatto a brandelli il sogno del libero amore lasciandosi dietro una scia di morti senza degna sepoltura. La politica italiana s’è persa per strada ogni straccio di utopia e sta già cominciando a vomitare fenomeni mediatici sporchi e beceri come non se n’erano mai visti prima.
Al cinema, dove andava solo chi aveva troppa fretta per aspettare l’uscita del film in televisione, gli Schindlers’ list erano la rarità e il massimo che si poteva chiedere era uno spazio chiuso nel quale poter limonare con la fidanzatina di turno.
La cultura dell’italiano medio, le reti televisive cominciavano a forgiarla coi residui del decennio precedente, con le dottoresse alle grandi manovre e con i vari ‘er munnezza che riempivano i palinsesti delle reti private che si affacciavano, fenomeno nuovo, un po’ ovunque. La corsa al ribasso era cominciata.
Essere adulti negli anni ’90 era un lento avviarsi al compromesso, con nuove paure che bussavano alle porte e con una gran voglia di chiuso nelle coscienze che già cercavano quell’anestetico che il berlusconismo prometteva in abbondanza.
Tutt’altra cosa era essere ragazzi e vedere da, questa prospettiva non certo privilegiata, il mondo sgranarsi come un rosario in un’infinita litania di forse e di però. Essere ragazzi negli anni ’90 significava, in modo inedito, non voler essere grandi. E non perché il mondo dei grandi implicasse chissà quali responsabilità o prese di coscienza, ma perché era un qualcosa di non facilmente riconoscibile, di amorfo come amorfa era la realtà sociale che stava intorno senza troppo premere e senza essere neanche del tutto spiacevole.
Così sono i ragazzi de Il paese delle spose infelici. Loro, il mondo adulto neanche lo vedono troppo da vicino. Sono ancora figli di una generazione, forse l’ultima e neanche lo sa, che gioca in strada col pallone e si intrufola nei vicoli delle città con corse che sbucciano le ginocchia. D’estate stanno a casa quel tanto che basta per dirsi figli dei loro genitori, poi vanno fuori pensando che il mondo adulto sia, in fondo, qualcosa da evitare il più possibile. Non ancora perché brutto (questa sarebbe stata la scoperta della generazione successiva), ma perché spento.
I goonies diventavano grandi nel decennio precedente, come pure i ragazzi di Stand by me. Ora si diventa più grandi dopo e senza la catarsi dell’evento luttuoso, ma con passo grigio, che lo fai che neanche te ne accorgi.
Così la peggior violenza che si possa fare ad un film come Il paese delle spose infelici e volerci vedere l’esemplare storia di formazione, il crescere, anche loro malgrado, di ragazzi come tanti in un’estate come tante.
Il film non vuole essere questo perché i suoi ragazzi, protagonisti esemplari, non sono questo. Sono piuttosto piccoli furfanti che si rifugiano nel fango dei campetti di calcio perché quello morale nel quale cominciano a sguazzare i genitori con le televisioni sempre accese è meno vero e più unticcio. E non guardano alla loro vita come ad una somma di esperienze che li porterà verso qualcosa, ma come un affastellarsi più o meno sensato di momenti unici, irripetibili nella loro bellezza, come una ragazza in abito da sposa che si butta dalla cima di una chiesa, o come un’azione di calcio perfetta dove ogni giocatore sta al suo posto e il ralentì te lo gusti tutto come un pezzo di bravura.
Se il film non avanza tutto insieme verso l’imbuto della fine non è per incapacità registica, ma per necessità poetica, per il bisogno di starsene attaccato a personaggi che a tanto sguardo starebbero ingabbiati come il pappagallo del film. Sarebbe come stare addosso a figure che una fine non la vogliono perché più o meno sentono, nella confusione degli ormoni, che non c’è davvero, perché non sono grandi neanche i genitori anche se sono avvocati o meccanici e, magari, un tempo, erano stati pure figli dei fiori.
Per questo Mezzapesa più che dal romanzo attinge dall’idea musicale del tema con variazioni. Variare, in musica, significa mutare, trasformare, magari anche trasfigurare, ma non sviluppare. In una “variazione” il tema viene esposto, arricchito anche di ornamenti che lo rendono irriconoscibile, ma queste modificazioni, non lo pongono in alcun modo in “movimento”.
Così sono i personaggi di Il paese delle spose infelici, figure che non vengono fatte propriamente agire quanto, piuttosto, sono mantenute in uno stato di riposo, mentre la bravura del formalista strappa l’applauso giocando con quel niente cui spesso diamo il nome di emozioni.
Ha ragione, in fondo, chi dice che il film finisce quando tutti e tre i personaggi principali sono sulla scena. Ma chi lo dice sembra non voler capire che a finire è solo il tema, il lavoro vero del compositore è tutto ancora da iniziare. È finito certo il romanzo, ma l’orchestra deve ancora cominciare a scaldare i muscoli, ad accordare le sue follie corelliane.
Sarà per questo che, caso raro nel cinema italiano, le musiche (tra cui di Corelli, guarda un po’, il più famoso tema con variazioni, forse, di tutti i tempi) erano già state scelte in sede di sceneggiatura. Perché, in fondo, Il paese delle spose infelici, che ha, a differenza del titolo, mano felicissima a toccare con lo sguardo tutti i soprassalti dell’adolescenza, è un film soprattutto musicale. Uno di quelli, rarissimi, che ascolti con gli occhi mentre la forma si fa, come in ogni sonata che si rispetti, sostanza.
Un piccolo gioiello che si avvale di un cast superbo e che rivela un talento visuale non da poco.


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