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IL RITORNO DEL MONNEZZA

Pubblicato il 17 aprile 2005 da Edoardo Zaccagnini


IL RITORNO DEL MONNEZZA

Enrico, dai capelli più lunghi e brizzolati di Carlo, è seduto orgogliosamente accanto a Claudio e racconta con un’intelligenza borghese e tutta romana, con i toni del politico esperto, o del giornalista navigato, tutta una serie di aneddoti, cinematografici e sociologici, buoni ad introdurre, giustificare, infarinare ed incartare le caratteristiche di questo sonante ritorno/progetto. Poco più in là il vecchio Vittorione, ghignoso e in sovrappeso. Ferito dal calcio, medicato dalle arti e dai mestieri della morbida Valeria e sbragato comodamente sul sofà di casa sua, ricorda, con soddisfazione e orgoglio, il lunghissimo mestiere dei suoi trecento film e ricostruisce con dovizia di particolari gli anni settanta suoi e del suo papà. Recita, da imprenditore lucido, per ciò sostenitore deciso ed educato dell’operazione, la mano tesa ad un presunto bisogno di verità, realtà e identificazione di queste povere giovani generazioni, stanche e confuse, secondo l’ex patron viola, dalle crisi da trentenne e dalle gravose riflessioni sul presente e sul futuro. Vittorio sposa, con amore, la loro “giusta” causa ma commette il piccolo peccato di rispondere alle continue richieste di un nulla narcotizzante con la fragilità e la leggerezza d’un babbo debole e troppo buono. Ancora più a lato Enzo Salvi. Il suo sghignazzare e l’annuire con la testa ad ogni concetto espresso dai colleghi, sintetizzano, ad ogni battuta obbligata, le radici popolari, la materia e la voglia di continuare a farcela del suo ripetibile e ripetuto fenomeno. Salvi, o Cipolla, contribuisce, col tifo e il peso dell’enorme mole degli strati più bassi (da tempo alla ricerca disperata di un nuovo, introvabile Bombolo), a comporre un “divertente” e redditizio gioco di squadra che si chiude sulla romanità netta, tozza, saporita, sveglia e ormai “affidabilissima” di Claudio Amendola da Cefalonia. Anche lui sorride. Ha le gambe distese sotto al tavolo e la colonna che pigia, sicura e rilassata, sullo schienale della sedia. Conserva, insieme al passo solido e guardingo del pischello della curva, l’inossidabile e rassicurante accento bonario ed educato del bravo (e bel) ragazzo di periferia, ma sono i nuovissimi occhialini da eterno studente (che addolciscono nella giusta maniera il viso di questo ex figlio modello della buona e pesante anima di Mario Brega), a compiere il miracolo di rendere meno impossibile l’anche buffa missione di inventare le ragioni e persino l’utilità sociale di questo “azzeccato” money-movie o nothing-movie. Claudio entra con forza nel personaggio e contribuisce a rafforzare le teorie degli uomini seduti intorno a questo tavolo, che guardano con scetticismo e mestiere la platea che li sta giudicando, mentre dispensano consigli ai giornalisti ed ammoniscono per certe domande o certi titoli, forti di un’innegabile e solida carriera, coi loro sguardi gonfi di popolarità e danaro. Ritornano, con faccia disinvolta e fiera, sulla verità di certo linguaggio e di certi stereotipi mostrati “con merito” nel film. Un uomo si alza e con voce sommessa e composta sostiene di non essere d’accordo con quanto visto, nè con quanto sentito. Si chiede e domanda se davvero possa bastare la traslazione delle mode e delle tendenze più popolari dentro uno schema filmico scontato e trascurato, per pensare di aver gettato uno sguardo sul presente e raccontato di una condizione generale. Si dice infastidito dalle parolacce e dalle banalità con cui il film disseta milioni di palati allenati all’insensibilità e al cattivo gusto, e non fatica ad esprimere il suo risentimento. Enrico, sarcastico e toccato, si fa dare la parola: “Non ci si può scandalizzare ancora per le parolacce. Se volete ascoltare un linguaggio pulito e corretto guardate le fiction televisive! L’Italia non parla così. L’italiano usa un’infinità di termini volgari ed ha un rapporto ossessivo ed infantile col telefonino. Lo chiamate Trash ma è verità, quotidianità.” Silenzio e riflessione. Per fortuna ad Enrico non scappa la parola realismo ed è anche difficile contestargli l’osservazione sulla falsità dei dialoghi di ogni prima serata. Volendo, si può perfino fingere di ringraziarlo per lo studio sullo slang, sulla lingua e sulle abitudini delle grandi masse che attraversano, strafatte, questo primo scorcio di millennio. Ma, ammesso e non concesso che le parolacce o l’idiozia rispondano a una legge di mercato, non va dimenticato che nel lontano ‘83 proprio i fratelli dalla faccia espressionista e sghemba, realizzando il loro primo (e unico) Vacanze di Natale, costruivano una commedia corale, brillantissima, socio-romantica e felicemente musicata che a distanza di venti e più anni si presenta ancora come prodotto godibile e non inutile alla descrizione del primo decennio anti-ideologico e griffato. Di fatto sorgeva l’alba nera di un “conveniente” e distruttivo giorno e un raggio malato avrebbe, da allora, illuminato un’orgia di blockbusters natalizi e di polemiche arbitrali. Un inferno di guitti televisivi avrebbe fatto ridere le case, mentre vips in agonia si sarebbero eliminati l’anima per rimanere tali, e la cosiddetta gente normale, invidiosa e annichilita dalla propria, anonima originalità si sarebbe data disperata battaglia per non esserlo più. Iniziava il trionfo del capitalismo e degli affari dei pochi che ancora oggi osservano, progettano e ridono sul serio, mentre certe sale crepano di risate ignoranti e tragiche e si riempiono di film inutili ed avari. L’ultima “sicura” e lucida provocazione è l’intuizione di strizzare ciò che è stato ed ha, a diversi livelli, significato. Le pance stragonfie e le teste ciniche e finissime dei potenti del cinema italiano si procurano privata ricchezza giocando con la paura di pensare della gente. Strizzano un film perché esistono operai, impiegati e imprenditori che ignorano fino a non riconoscerlo (e addirittura a disprezzarlo), un cinema (o un libro o uno spettacolo) bello, utile e intelligente. “Se questa gente”, potrebbero onestamente pensare i Vanzina o i Cecchi Gori, “ha voglia solo di ritrovare il terreno rassicurante della propria infanzia o della propria quotidianità, a noi va benissimo così, anzi! E poi contenti loro..” L’enorme piacere del guadagno grosso, facile e senza rischio alcuno, avviene senza la stupidità di un nuovo personaggio e nessuno sforzo è stato mai così leggero. Strizzato un film, o un genere, ne strizzano un altro, e dopo il miracoloso Febbre da Cavallo, profanato nel 2003 (dai figli stessi di Stefano I il grande), tocca ora alla saga già profana e già volgare di Tomas Millian e Ferruccio Amendola: sottogenere “cult” di quel poliziottesco all’italiana riesumato e fatto involontariamente sacro dalle parole e dalle bacchette di Re Tarantino. I commenti dell’autore di Pulp Fiction, come una sentenza Bosmann, pesano tantissimo sul riciclo delle varie Mondezze, perché l’uso strumentale del dibattito/polemica sul trash, esorta chi dovrebbe stare zitto a reclamare un suo recupero e ad inventare una presunta dignità di diritto che gli dia una nuova, mai sperata, dignità. Il rischio reale è che si finisca col rendere sacro ed intoccabile anche chi merita tutt’altra considerazione. Ma lasciando in sospeso una complicata analisi sul trash, ribadendo che ogni derivato dal primo Vacanze di Natale è firmato Neri Parenti, (e non Vanzina), e continuando sul rapporto tra recupero, linguaggio, volgarità e guadagni, che sembra l’aspetto più interessante di un film che altrimenti sa di poco o nulla, viene in mente sia l’onesto e originale lavoro sulla lingua di uno come Carlo Verdone, per esempio, che non è un genio, ma una fabbrica di soldi pudica, sia l’intelligenza di un’operazione come quella americana dei poliziotti Stursky ed Hutch. Là, gli anni settanta, sottofondo culturale indispensabile anche al commissario Nico Giraldi e al precedente Monnezza, rimangono e vengono riesposti in chiave mitica. Gli attori forniscono, oltre ad una efficace e personale interpretazione, una continua e originale citazione al mito del biondo e del moro che cavalcavano una rossa sportiva. Starsky ed Hutch, il film, è un’opera viva, fresca e affezionata al serial che l’ha prodotta, tranquillamente e legittimamente incline al guadagno e al largo successo. Questo per dire che non ci si può arrabbiare per un cinema facile e commerciale come non si può pretendere che un film sia per tutti e di assoluta qualità. Per ciò non si vuole rimproverare ai Vanzina o a Cecchi Gori di fare i soldi con le parolacce, né di farli con uno straccio di film furbo ad ogni taglio, e neppure li si può accusare di disprezzare il genere umano avvelenandolo, ogni anno, con tale cattiveria. Potremmo essere arrabbiati, ma vinti dall’abitudine a tali costumi stiamo zitti. Questo cinema ce lo teniamo, come ci teniamo tante altre cose; lo sopportiamo come sopportiamo il gonfiarsi delle loro pance perché si confondono con altre ancor più gonfie. Lasciamoci, però, la forza e la voglia di arrabbiarci per il racconto bugiardo sull’origine di questo calcolato progetto e gridiamo tra di noi alla falsità di un monnezza che tornerebbe nelle sale per compiere un discorso sulla lingua, sul costume, o per omaggiare il sottogenere che lo rese amato e celebre. Il ritorno der monnezza, anzi del figlio del mondezza, è tutto dei nostri anni commerciali, ritorna in sala perché è un investimento di sicuro e cinico affidamento. E’ la triste, ennesima, potente mandrakata e l’anno prossimo potrebbe sgominare il crimine ad Aspen, poi sul nilo, e ancora in India. La carcassa di un’idea fortunata continuerà ad essere succhiata fino a che le risate della sala ingrasseranno l’egoismo e la cecità di chi le possiede.

[aprile 2005]

regia: Carlo Vanzina, sceneggiatura: Enrico Vanzina, Carlo Vanzina, Piero De Bernardi, fotografia: Claudio Zamarion,montaggio: Raimondo Crociati, musica: Andrea Guerra, interpreti: Claudio Amendola, Elisabetta Rocchetti, Enzo Salvi, produzione: Vittorio Cecchi Gori, distribuzione: Medusa

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