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Il seme della follia - Marco Bellocchio incontra Luigi Pirandello

Pubblicato il 28 settembre 2007 da Simone Isola


Il seme della follia - Marco Bellocchio incontra Luigi Pirandello

La narrativa di Luigi Pirandello è stata una delle principali fonti d’ispirazione nel cinema di Bellocchio; può un autore che pone gli emarginati al centro del suo mondo poetico, rimanere insensibile allo scrittore che eleva la follia, se così si può dire, a protagonista, anzi la “personifica”? Il primo incontro del 1984, con il testo teatrale dell’ Enrico IV, è rischioso e non facile; Bellocchio si dice spesso non convinto della scelta fatta. L’operazione è in realtà più complessa di quanto si immagini. Il regista piacentino si pone di fronte al testo in un duplice atteggiamento: rileggendolo nella sua interezza, con tutte le implicazioni che ne derivano, ma situando il tutto all’interno del suo mondo poetico, della sua visione della realtà. E l’interpretazione tende senza dubbio verso il comico, caricando l’aspetto farsesco della comitiva di visitatori, e l’immagine burlesca dei servitori del castello. Enrico più che folle è un ragionatore (passateci il paradosso), ed è consapevole, a differenza dei suoi ospiti, delle contraddizioni dell’essere umano; il protagonista è “colui che sa”, che concepisce lo status dell’individuo nella società come limitante, umiliante; e questo sapere amaro lo porta a galoppare epicamente un cavallo a dondolo, nell’affanno di cose immaginarie, alla ricerca di quel “grand’uomo” che avrebbe potuto essere e non sarà mai. Matilde, con gli anni che scavano il suo viso, prova pietà sincera per Enrico, intuisce il suo esilio dalla vita come una scelta profonda; tuttavia la donna lo osserva dalla prospettiva di chi ha vissuto tranquillamente seguendo le regole frivole ed ipocrite dell’alta società.
Enrico IV è un personaggio che si presta a virtuosismi eccezionali. Ogni attore vorrebbe interpretare questa parte almeno una volta nella vita. Anche se del testo pirandelliano sono state date le interpretazioni più diverse, solitamente sul palcoscenico prevede pezzi di bravura per l’attore protagonista che danno modo di sfogare il suo istrionismo (Mastroianni).
Bellocchio nella trasposizione cinematografica smorza almeno in parte questo istrionismo, opta per una recitazione più intimista; l’anima complessa e turbolenta di Enrico prende corpo attraverso le pieghe degli sguardi, i folli sussurri, in fondo così razionali, che escono dalle labbra di Mastroianni. Una recitazione più sottile, più attenta e partecipe della forza drammatica delle battute, dell’espressività di un volto. Le musiche struggenti di Astor Piazzola accompagnano il desiderio di libertà e di pace interiore che il protagonista ricerca nel suo esilio. Il baricentro del testo ruota così su se stesso; la folle vita di Enrico è conseguenza del mancato, benché voluto, sviluppo della propria personalità, del proprio essere; e in questo senso vanno lette le sequenze degli uccelli di carta, che Enrico fa agitare dai suoi servitori, e la corsa sul cavallo di legno; immagini di inibizione, della mancata realizzazione di sé, del rinchiudersi in una finzione che trova sfogo solo nelle fughe poetiche dell’immaginazione. Compare anche una sottile vena anticlericale, nell’incisiva sequenza della preghiera di Enrico di fronte al finto Gregorio VII. In questa interpretazione l’episodio acquista in sé un valore centrale nel testo; la figura storica dell’imperatore che si umilia per tre giorni, scalzo ed affamato, chiedendo perdono al papa che l’ha scomunicato, diventa emblema dell’ umiliazione di fronte ad una realtà insensibile. La messinscena di quest’episodio storico non sminuisce il senso d’impotenza provato dall’uomo dolente per l’indifferenza dell’istituzione religiosa, incapace di rispondere alla sua crisi d’identità. Le esperienze della vita reale, colme di inganni e di emarginazione, segnano l’inadeguatezza del personaggio al vivere collettivo, alla sfera dei sentimenti; prende vigore un senso di inappagatezza, il dolore per non poter esprimere la propria individualità fino in fondo. La scelta di Enrico di autoescludersi dalla società borghese è quindi una scelta obbligata, se non vuole accettare i meccanismi e le regole che sono alla base di questa società. Si tratta dunque di una ribellione? Di un ammutinamento? E che esito ha questa volontà di star fuori dal consesso civile?
(ENRICO IV) ...Ma dite un po’, si può stare quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere gli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il suo giudizio? - «Pazzo»!...
Pazzo è colui che comprende la base fondamentale della società civile: il suo essere fuggevole ed inautentica, condizionata dalla falsità del convenzionalismo sociale, che allontana gli individui gli uni dagli altri. La follia di Enrico non fa che riprodurre autonomamente gli schemi della società “normale”; in fondo anche la sua esistenza non è che “vuoto formalismo”, una rinuncia vana, lucida e sincera, ma pur sempre vana. Se Bellocchio riconosce ad Enrico del sano anticonformismo, ne mette anche implacabilmente in evidenza la dimensione di autorepressione; si può così arrivare a definire il protagonista un alienato, che subisce volontariamente, quasi come prova della sua convinzione, il vivere ai margini della società.
Gran parte dell’adattamento si basa quindi su questo elemento chiave; l’errore di considerare la società borghese, con i suoi tic, i suoi costumi, come un insieme coerente di persone che edificano e sviluppano la civiltà; in realtà si tratta di uno schema spietato, nel quale i mediocri si alleano ed escludono tutti gli altri dall’esser protagonisti del corso della propria vita.
...Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo...
Film complesso, Enrico IV è opera che grida attraverso sussurri, che va a fondo dove le parole sono più intime, più sottili. E lo spettatore richiede a gran voce altre parole dall’autore, ma il film non placa il desiderio di “altro”; siamo di fronte ad un cinema che pone lo spettatore in una posizione di interlocutore partecipe, che anzi lo invita a completare l’opera con le proprie esperienze personali; le immagini e le parole sfuggenti che guizzano dallo schermo sono stimoli per una riflessione, segni lasciato dal folle più “istituzionalizzato”, quale è Enrico IV. Il protagonista beffa così oltre i suoi invitati anche noi spettatori compiendo una sorta di “seduta psichiatrica” con la camera, attraverso il primo piano ossessivo, lo scorrere delle sue parole; il ragionamento spietato ci colpisce tutti, il nostro essere uomini e il nostro ruolo all’interno della società. Il finale dell’opera, con la tentata guarigione, apparso a certa critica irrisolto e sommario, è la messa in pratica delle teorie espresse per tutto il film dal protagonista; è l’estremo tentativo (sempre fondato sull’artifizio) per la società dell’apparenza, di richiamare all’ordine un suo antico e riluttante elemento perduto. Il finto monarca contrappone il suo ineccepibile ragionamento, ma non è in grado di cambiare gli equilibri del vivere civile; come la sua spada (finta) non può ferire Belcredi, così il “filosofeggiare” di Enrico è la confessione, in fondo, di un impotente che ha capito. E inoltre, il “fissare” la propria esistenza nella figura storica di Enrico IV non è poi fondarla sull’apparenza, su un’insegna, su un nome? La mesta conclusione, con l’adunata dei suoi servitori e l’uscita di scena del protagonista, è l’eclisse di una figura che ha molto parlato ma poco agito.
Inutile anche il film? No, perché mostra alla nostra coscienza le contraddizioni dell’essere umano; contraddizioni che sono indicibili, dentro di noi, e che dobbiamo cercare e rivivere partendo da questo film. E’ un invito, un’esortazione.
Sette anni dopo l’Enrico IV, il regista piacentino realizza per il piccolo schermo L’uomo dal fiore in bocca, uno degli atti unici di Pirandello più celebri e rappresentati. La versione di Bellocchio segue rigidamente il testo teatrale, rispettandone luoghi e tempi: il colloquio tra un uomo condannato a morire tra breve per un epitelioma e un avventore che vive tranquillamente la propria futile esistenza. Se il secondo personaggio, nella sua passività, segue i luoghi comuni, le banalità dell’esistenza piccolo borghese, che scorre placida ed immutabile, l’uomo malato riesce nel drammatico momento ad analizzare la sua condizione con straordinaria lucidità. Se le vicissitudini con una famiglia numerosa e petulante, con pacchi e nastri, vengono stigmatizzate dal protagonista (...Sa che avrei fatto io? Li avrei lasciati in vettura...), l’immaginazione permette di continuare a vivere, di liberarsi dal destino incombente e da una vita banale e soffocante; un’esistenza, quella borghese, che ora il protagonista rimpiange, come l’unica possibile davanti al nulla della morte. Questo piccolo video si lega così alle opere che seguiranno, dal già citato Sogno della farfalla sino a Buongiorno notte, nelle quali il senso di morte incombente si stempera nella speranza di un ritorno alla vita e all’esistenza.
Se il testo Pirandelliano è stato seguito con precisione, e la rappresentazione avviene chiaramente in un teatro, i personaggi non vengono mai inquadrati come visti dall’occhio dello spettatore in platea. Si sentono le tavole scricchiolare, e lievi rumori di fondo. Bellocchio insomma situa questo atto in una dimensione “media”, tra il “sogno” del cinema ed il “concreto” del teatro. Già l’entrata in scena del protagonista è sintomatica: l’uomo entra da un lato del palco, seguito dalla camera, guardandosi intorno come se spiato da qualcuno (sua moglie); è evidente il tentativo della regia di inserire il testo in un microcosmo, mostrandoci brevemente l’interno del bar, l’arco che chiude la scena sullo sfondo. La musica accompagna il testo evidenziandone espressivamente pause, momenti di particolare emozione, mescolandosi con le parole sino quasi a coprirle, ad annientarle. I controcampi iniziali lasciano il posto a intensi primi piani del protagonista, che acquista un rilievo quasi assoluto sulla scena, con lente zoomate che ne mettono in evidenza le linee del volto, l’espressione. Le pause si consumano con lentezza, presentimenti di morte. E la povera donna che riaffiora dal buio, che richiama l’uomo alla vita e agli affetti, ci viene mostrata in soggettiva, come se quel sensuale richiamo fosse per tutti un sogno di piacere (ma il suo volto è solcato dalla sofferenza); ma l’uomo, rassegnato alla sua condizione, allontana quella creatura dalla luce, isolandola nel suo dolore.
E’ una figura stupenda, quella della moglie dell’uomo malato. A volte sottovalutata in alcune messe in scena, Bellocchio invece ne mostra il volto, ne fa sentire i passi vicino al bar, la fa entrare in scena nella fine dell’atto, le fa rincorrere l’uomo che ama. Il richiamo costituito dalla donna è un’altissima invenzione di Pirandello; nella sua indefessa volontà di trascinare il marito a godere degli ultimi giorni della sua vita, ottiene in cambio solo violenze; vorrebbe baciarlo per morire con lui. Incapace di provare i comuni sentimenti, l’uomo ormai vive in una dimensione di “pre - morte”, abbandona la sua esistenza; lo fa però con dolore.
La recitazione di Placido evidenzia efficacemente la rabbia che esplode in queste battute, sino a tingersi di follia. Ma quando il personaggio acquista la calma, si siede e lucidamente riflette su di sé questa rabbia (utilizzata significatamene al posto del termine “stizza”, presente nel testo pirandelliano) si scioglie in una inconfessata ma palese voglia di vivere, che oltrepassa il fine intelletto e la continua mistificazione fornita dalla vita sociale. Forse la malattia è la stessa di Enrico IV, quella di aver scoperto i limiti dell’esistenza. E nel finale, l’uomo malato disegna immagini di natura viva e fresca, e il rimpianto si fa più vivo; esce di scena rincorso dalla sua donna, dalla vita che lo chiama, ormai troppo tardi, verso di sé.
...Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche... Come le mangia lei? Con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà; si premono con due dita, per lungo...come due labbra succhiose...Ah, che delizia!...
E’ un teatro che trova giustificazione in sé, che non ha alcun bisogno di platea, di pubblico. La donna emerge da un buio che è assoluto, che non è la penombra di una quinta. Bellocchio ci fa assumere la prospettiva del regista, che assiste alla scena spostandosi in diverse posizioni, in modo assai più complesso e totalizzante dello spettatore di platea, che è costretto (almeno nella maggior parte dei casi) ad assistere allo spettacolo da un’unica posizione, a osservare la scena come se stesse guardando una finestra. L’uomo dal fiore in bocca, senza voler trovare in questo video significati che non gli appartengono, è un’altra riflessione, a distanza di molti anni dal Gabbiano, sulle possibilità di “filmare” il teatro; l’autore non ci mostra la scena, ma ci fa entrare sulla scena, facendoci apprezzare la pregnanza che in essa assumono ogni suono, ogni parola. Come lo scricchiolare delle tavole del palco.
All’inizio di un decennio per lui decisivo, Bellocchio giunge con quest’opera a un più composto dissenso dell’esistenza borghese; il rifiuto verso il conformismo della società avviene in chiave psicologica e intima, la dimensione della “tabula rasa” non gli appartiene più. E’ un’evoluzione vitale per il cinema di quest’autore, da un cinema di decostruzione a un cinema di costruzione, dove il bisogno di cambiamento nasce nell’intimo dell’uomo. Bellocchio resta un ribelle non riconciliato, ma che non crede più che la sola rabbia porti al cambiamento.
Nella Balia, il suo ultimo incontro con Pirandello, la presenza sovversiva all’interno delle mura domestiche è affidato ad una donna, Annetta, una piccola contadina che lentamente prende consapevolezza della sua condizione, della sua dignità di donna. Mentre la borghese Vittoria, padrona di casa, vive nella nevrosi e nell’insicurezza, la giovane balia si rivela nel corso del film sempre più consapevole, sicura. E l’immagine più bella del film, l’ombra di Annetta che, ingigantita dalla luce che filtra da una finestra, copre un’intera parete e arriva sino al soffitto della stanza, segna l’evoluzione stessa del nuovo Bellocchio. Il suo Io si libera di quella rabbia politica e di classe che lo ha accompagnato per decenni, e il suo spirito si orienta verso nuovi problemi e nuove difficili esistenze. Un nuovo pubblico ora lo segue senza aspettarsi da lui lo spargimento di sangue.
Un’evoluzione costellata anche dalle folli figure del mondo di Luigi Pirandello.


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