Il Silenzio sul Male - Il Cinema Muto di Kim Ki-duk

Le opere di Kim Ki-Duk hanno sempre testimoniato con estremo rigore l’assoluta fede da parte del loro autore nella forza di persuasione e di penetrazione dell’immagine, dal suo esordio carico di promesse con “Crocodile” alla splendida riuscita nel racconto per immagini di un’incredibile storia d’amore senza (quasi) far scambiare battute tra i due protagonisti.
Scelte emblematiche nell’arco fin qui tracciato dal grande cineasta coreano: Kim riesce a comunicare sentimenti e perfino le più minute sensazioni senza dover far ricorso alla comunicazione verbale, che rappresenta per lui, più che un viatico, un ostacolo nel cammino verso la conoscenza.
E risulta evidente per il suo recensore come tentare di rendere conto col solo strumento delle parole di un’opera così vasta e irriducibile a lasciarsi ingabbiare entro schemi o formule prestabilite rappresenti un azzardo.
“Ogni persona è come una casa vuota” ha dichiarato il regista in occasione della presentazione di “Ferro 3” alla Mostra del cinema di Venezia dell’anno passato. “Noi che viviamo nell’epoca moderna abbiamo una sorta di casa vuota dentro di noi, come se avessimo una serratura che chiude noi stessi. Siamo in attesa di incontrare qualcuno che venga ad aprire la nostra serratura. Ma la solitudine ci spinge a chiuderci sempre di più”.
Le sue pellicole sempre impeccabilmente fotografate vengono esaltate da una patina estremamente elegante, da quella estrema cura formale che si tende ad associare meccanicamente ad un atteggiamento distaccato da parte dell’autore. Ciononostante suona assurda l’accusa di astrattezza piovuta sul capo di Kim: tale critica non comprende difatti proprio il tentativo estremo e ardito di portare sul grande schermo il mondo interiore dei suoi personaggi, racchiuso/rinchiuso in quel loro atavico silenzio. Il suo è un cinema caldo proprio perché il regista vuol scardinare il lucchetto che contiene la nostra più segreta ed autentica essenza e liberarla, lasciandola fluttuare come un fantasma che si aggiri indisturbato per il mondo.
I suoi protagonisti silenziosi si muovono non visti nell’ombra della società, che li relega ai margini, così che le loro tragiche storie d’amore o d’amicizia, di sofferenza e degradazione finiscono col non fare alcun rumore. Kim lo sa bene e sceglie dunque di occuparsi proprio di queste vicende poco illuminate spingendosi fin quasi all’infilmabile, come un ultra-sensibile fotografo dell’anima: lo fa con Tae-Suk, il ragazzo-fantasma che esiste solo quando gli altri non possono vederlo, vivendo negli interstizi delle case in cui si addentra e che per conquistare il suo diritto ad esserci impara a sottrarsi progressivamente agli sguardi della gente. O di nuovo col vecchio suonatore de “L’Arco” che può coronare il suo sogno d’amore e però, al tempo stesso liberare la ragazza dalla sua presenza invadente, solo scomparendo letteralmente.
Stiamo parlando di una fra le caratteristiche più sconcertanti (almeno per noi spettatori occidentali) nel cinema di questo immaginifico autore orientale: la “fantomaticità” delle sue pellicole.
La nostra reazione di spettatori di fronte al cinema di Kim è accostabile a quella di chi abbia appena assistito all’apparizione di un fantasma: muta ed esterrefatta. I suoi film esigono il silenzio, una disposizione dello spirito improntata ad una meditazione assorta, come se si trattasse di interiorizzare e assorbire dei racconti zen dal significato sfuggente.
Con “Ferro 3” Kim spinge alle estreme conseguenze il suo personale “discorso”: si noterà come in questo film a parlare siano piuttosto gli oggetti che non i soggetti umani: la segreteria telefonica, il videocitofono, il telefono (e la cinepresa non riprende mai chi parla, ma sempre chi ascolta silenziosamente, sottolineando così la provenienza non-umana, meccanica di quei suoni). Così quando Tae-Suk ha bisogno di “chiamare” la sua ragazza è alla sua moto che fa alzare la voce.
“Il silenzio è la conseguenza di una ferita, una cicatrice che brucia dentro e ammutolisce, e che il più delle volte porta colui che ne è segnato a lasciar esplodere le sue pulsioni più distruttive (rabbia, violenza, disperazione). E’ come un marchio di Caino che al tempo stesso gli impedisce una collocazione all’interno della società e gli alimenta l’odio per essa” sono ancora dichiarazioni dell’autore. E allora contro la crudeltà del mondo ci si può difendere solo opponendo un mutismo ostinato: è la grottesca maschera d’impassibilità indossata costantemente da Hang-Gi/Bad Guy, il “tipo cattivo” che non può mostrare crepe, pena la sopraffazione, e che darà corpo e voce al suo dolore solo nel finale attraverso un lamento stridulo e lacerante. E’ il grido dell’anima della moglie maltrattata di nuovo in “Ferro 3”, cui Tae-Suk senza proferire parola, risponde. All’opposto sta l’insondabile sorriso con cui quest’ultimo rifiuta di rispondere alle domande del violento poliziotto (la comunicazione che avviene per vie verbali ha evidentemente una connotazione negativa e di segno violento: i personaggi più ciarlieri sono difatti il marito manesco e il funzionario dell’ordine corrotto, poiché le parole servono ad ingannare e a falsificare il reale) o quello illuminato con cui Jae-Young trova la morte ne “La Samaritana”, statua-umana scolpita per sempre in quell’atto incomprensibile, mentre la sua amica le domanda disperata: “Ma perché ridi?”
L’immagine della statua ritorna ciclicamente in Kim Ki-Duk (e proprio in quest’ultimo film, nella scena ispirata in cui le ragazze reclinavano il capo su alcune bizzarre opere d’arte in pietra), che è stato egli stesso un artista di strada per anni. Kim, più che pittore sembra propriamente uno scultore d’immagini, in virtù della sua qualità di finissimo cesellatore di corpi cui riesce a conferire una plasticità e un senso di verità inaudite e ai quali verrebbe voglia di chiedere michelangiolescamente: “Ma perché non parli?”. Il pensiero vola da sé all’idea - davvero splendida - della statua vivente incarnata dalla bellissima modella-artista di strada in “Wild Animals” (uno dei film più belli di Kim, anche se passa stranamente per uno dei suoi meno riusciti...)
Il regista si comporta da scultore anche quando sceglie quel determinato set per il suo film e lavora solo su quella porzione, su quella materia vibrante e viva. Un set che è spesso uno spazio “isolato”: ambienti che recano con sé le idee di “solitudine”, “distacco dal mondo” e di nuovo “silenzio”, concetti indistricabilmente uniti in un’unica concatenazione logica.
L’atmosfera comincia a rarefarsi e il tempo pare raggelato, cristallizzato eppure in continuo movimento sotterraneo (“Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora Primavera”).
E’ l’immagine dell’acqua così come si presenta nei film di Kim: immobile, calma, distaccata. L’acqua che induce alla contemplazione, alla stasi e, di nuovo, al silenzio raccolto. L’acqua che fa parte di noi, che ne siamo composti per il 70 % e che a volte ne siamo sopraffatti e ci sentiamo la gola invasa, ritrovandoci immersi nostro malgrado in una sorta di brodo primordiale, pare suggerire Kim, in cui l’acqua si rimescola al sangue e gli esseri umani ne vengono plasmati - di nuovo come fossero delle statue - senza potersi emancipare dai loro più bassi istinti. E allora è alla voce dei loro impulsi primigeni, spesso assai violenti, che i suoi personaggi, così drammaticamente veri, danno ascolto.
Kim ci “dice” tutto questo con una sincerità disarmante e sconcertante al tempo stesso: per questo però l’autore si è attirato altre sterili polemiche sulla morale presuntamente distorta delle sue opere. Ciò che l’autore coreano fa, all’opposto, è togliere il velo di ipocrisia depositato da secoli di norme istituzionali sui nostri istinti e le nostre azioni più sincere. E’ proprio per far questo, per riappropriarsi della verità che ha bisogno del silenzio, dato che il linguaggio è il primo condizionamento arbitrario e ingabbiante imposto dalla società ai nostri impulsi più vitali.
La mirabile scena che chiude “La Samaritana” ne è un’ulteriore, perfetta testimonianza. La protagonista adolescente ha appena appreso dal padre solo i primi rudimenti della guida: troppo poco perché possa essere in grado di seguirlo nel percorso accidentato della vita, finirà impantanata nel fango.
C’è bisogno di dire altro?
