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Il volto dell’anima: Le donne di carne e spirito di Ingmar Bergman

Pubblicato il 3 agosto 2007 da Fabrizio Croce


Il volto dell'anima: Le donne di carne e spirito di Ingmar Bergman

Una donna distesa sul letto, con le cosce aperte e la camicia da notte sollevata e il frammento di un bicchiere di vetro rotto tra le mani. Un’immagine esplosiva, un momento di tensione e di emozione contratta, trattenuta, vibrante che poi si scioglie nella soluzione più sconvolgente e radicale: quel pezzo di vetro che penetra il sesso femminile e lo squarcia fino al sangue rosso, le mani della donna che si sporcano e si strofinano con volutta sulla bocca, una sorta di pasto "osceno" consumato davanti agli occhi del marito anziano e gretto, osservatore sconcertato più che disgustato di un gesto impenetrabile, chiuso nel suo mistero. Basta questa sequenza silenziosa eppure urlata a far sentire la forza e la profondità con cui Ingmar Bergman si è calato nelle zone più oscure della psiche e del cuore umano in generale e femminile in particolare e il film in questione, Sussuri e grida, è stato probabilmente l’apice, lo scorticamento crudo e a tratti brutale, lo spogliamento di tutti gli strati e le sovrastrutture che soffocano il corpo e lo spirito e lasciano un senso di nudità, di vulnerabilità, la possibilità di essere fragili e indifesi.
Se l’immagine della vagina tagliata appartiene a Karin, la più fredda, distaccata ed imponente (nelle fattezze appesantite di Ingrid Thulin) delle tre sorelle protagoniste, ben altro significato contiene in sè la figura della governate Anna, altrettanto maestosa ma morbida nelle forme, che accompagna Agnes, la sorella defunta, nel passaggio dalla dimensione fisica a quella spirituale, in un abbraccio suscitante un’emozione alta nella memoria dello sguardo, con il riferimento iconografico alla pietà di Michelangelo osservata nella prospettiva del rapporto Madre/Figlia. Nello spazio tra questi due istanti senza tempo, decostentualizzati dalla realtà logica e razionale perchè situati all’interno di un luogo identificabile solo attraverso il colore (rosso) e la luce di Sven Nykvist, emergono imploranti, sfacciate, sensuali, coraggiose, disperate, consapevoli le donne che Bergman ha amato, desiderato, compreso, trasportando questa comprensione, questo ascolto dentro il suo cinema già di per sè denso e ricco di prospettive e riflessioni. Cosa lega Monica, il primo compiuto ritratto di donna che illuminò i grigi e repressivi anni ’50 (Monica e il desiderio, 1953), con quello sguardo finale di un’inquietudine così incontenibile da dover guardare oltre la mdp, a Charlotte, la vanitosa, egoista, inafettiva madre-pianista di Sinfonia d’autunno (1978) c’è, prima di tutto, anche in un personaggio sgradevole e negativo come Charlotte, la lotta estenuante, affannosa, volitiva di distruggere il muro che isola il contatto con gli altri essere umani; Una lotta spesso violenta e feroce in cui le maschere sociali e culturali, infrangendosi davanti al grido regredito allo stadio infantile della Jenny de L’immagine allo specchio o al silenzio ermetico, di negazione della Elizabeth Vogler di Persona, lasciano il posto a un’autentica espressione di libertà esistenziale e spirituale. Libertà in Bergman significa ammettere di essere prigionieri e dimenarsi, battersi, generare una collusione con le bugie e le falsità che non solo l’educazione e i ruoli sociali, ma gli stessi legami familiari perpetrano con un coercizione sottile, quasi invisibile, camuffatta e ingannatta dall’apparenza rassicurante,da paradiso terrestre, dell’alta borghesia svedese in cui spesso si celano umanissi inferni di meschinità e crudeltà. Nelle donne Bergman non deve aver visto altro che la capacità di percepire e prevedere il disastro a cui va incontro chi pone il rifiuto come soluzione del conflitto, la menzogna come fondamento della relazione con l’Altro e con la propria interiorità, la limitatezza della percezione sensoriale come unico strumento per comprendere la natura, abbandonando completamente il senso del Sacro. La Marianne di Scene da un matrimonio è già in grado di vedere oltre la fotografia di famiglia perfetta e "il cui unico problema è quello di non avere problemi" che apre la prima inquadratura e questa verità viene enunciata cogliendo un attimo di indecisione negli occhi di Liv Ullman, in uno di quei primi piani che proiettano il volto nella dimensione dell’anima. Le donne bergmaniane sono fatte di primi piani, da quello impudico, fisico, "il più triste della storia del cinema" secondo Godard, di Monica/Harriet Anderson che diventerà innocentemente malizioso e frivolo con la servetta Petra di Sorrisi di una notte d’estate, per venarsi dell’ansia e dell’angoscia disattese per la mancata risposta di Dio nella Karin (sempre la Anderson) di Come in uno specchio.

La necessità di capire, di comprendere, di tradurre in un linguaggio più accessibile, diretto, comunicativo il vortice tumultuoso e irregolare delle passioni si afferma, con tutta la sofferenza di cui spesso è capace la vita, nella malattia mentale e fisica che attanaglia e atterisce come una gigantesco cancro divorante la parte sana, la speranza e l’utopia, la fede e l’immaginazione, il sogno di calore e di accoglienza, la malattia della quale in fondo soffrono a loro modo Monica, Karin, Elizabeth, Jenny, Charlotte. La positività dei personaggi femminili sta nel fatto di far crescere nel loro ventre il germe dell’anarchia, della rivolta, donne rivoluzionarie che partoriscono l’ideale della speranza e anche la concretezza della carne e il sangue, costringendo la società a rinchiuderle, isolarle, deportarle in nessun luogo per soffocarne lo spirito irrequieto. Sono non-luoghi la villa in riva al lago in cui le quattro Donne in attesa elaborano, ricordano, piangono e ridono ridefinendosi e cambiando rispetto agli uomini che devono arrivare, e l’ospedale dove si incrociano le storie e le pance delle partorienti Alle soglie della vita, ancora con una scarto di consapevolezza in più del perchè un essere umano può essere generato dal loro ventre. La valenza di non-luogo è chiara: le donne, la fitta rete di relazioni affettive che si stabilisce tra di loro, sono il canale di comunicazione in cui si manifesta realmente l’esistenza dell’individuo. Ingmar l’uomo, il cineasta, lo scrittore si è sintonizzato su quel canale e ne ha condensato l’inaudita e segreta intensità negli sguardi inistiti, ripetuti, che riecheggierano all’infinito nel nostro immaginario.


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