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In bilico tra metafisica e materialità. Il cinema di M. Night Shyamalan

Pubblicato il 27 luglio 2008 da Salvatore Salviano Miceli


In bilico tra metafisica e materialità. Il cinema di M. Night Shyamalan

Nulla, probabilmente, è più intrinsecamente legato alla corporeità dell’essere umano come la paura. Essa, infatti, tende un ponte sospeso tra metafisica e materialità, mente e corpo, astrazione e concretezza.
La scelta di attraversare questo ponte, di varcare la soglia di un passaggio che indecifrabilità ed imprevedibilità concorrono a rendere comunque oscuro, ha sempre qualcosa a che fare con l’eroismo, perché eroico è andare incontro a ciò che non si conosce, ad ipotesi inconfutabili, qualsiasi sia il peso, dal futile al grave, che esse nascondono.
Assumendosi l’onere di dare una qualche forma alla paura, specie con il mezzo cinematografico, ci si può attestare su posizioni tra loro assai diverse. Si può optare per una rappresentazione priva di stratificazioni, che rivendichi la potenza evocativa di una immagine in cui sia l’impatto visivo, spesso legato alla tangibilità di un imminente pericolo, il reale vettore; l’immediata, per questo inattesa e per questo sconvolgente, trasformazione del tono e del ritmo. Oppure, si può costruire una sensazione, o meglio, un sentire che travalichi la fugace deflagrazione di un momento, innestandosi nel tono e nel ritmo del film come una cellula estranea ma invisibile, diventandone metastasi, mutandone la genetica, manipolandone simboli e significati, generando, così, ansia e terrore, intendendo con quest’ultimo un progressivo ma inevitabile senso di spiazzamento.
È questo il caso di M. Night Shyamalan. Vicino, per sua stessa ammissione, a registi quali l’Altman di McCabe and Mrs. Miller (I Compari) o, soprattutto, il Peter Weir di Picnic ad Hanging Rock, sembra cercare di mitigare il senso ultimo del cinema con elementi di chiara origine teatrale, proponendo soluzioni che solo raramente si offrono ad una lettura immediata ma che, al contrario, necessitano di un prima e di un poi, di essere cioè considerate nel continuum della pellicola, viste, nella loro singolarità, come emanazioni di una struttura più ampia che solamente la totalità della sua presa in considerazione può rendere interpretabile.
Questo è riscontrabile sino da The Sixth Sense, suo primo grande successo commerciale, in cui, pur non disdegnando ammiccamenti ad un cinema meno d’autore e più commerciale, si intravedeva già una maestria non comune nel sapere gestire l’elemento drammatico e, soprattutto, nell’integrarlo allo scheletro, all’asse portante del film. Non è un caso, poi, che i due film che, ad oggi, hanno avuto meno fortuna al botteghino siano anche i più articolati strutturalmente e quelli in cui Shyamalan vira sempre più verso una regia complessa non tanto nella sua impaginazione visiva quanto nella sua linea emotiva.
In Unbreakable e The Village, infatti, pur per motivi semantici differenti, siamo ben lontani dai picchi di The Sixth Sense. Sarebbe più opportuno dire che in queste due pellicole ci muoviamo lungo direttrici più ostiche, figlie di scelte stilistiche più radicali e tematiche che corrono dalla individuazione del sottile legame, quasi fraterno, che unisce il bene ed il male alla messa in scena, e qui è d’obbligo usare un gergo teatrale, delle fobie di una società costretta a rifugiarsi nel passato pur di non soccombere all’inadeguatezza del presente. Se nel primo è giusto evidenziare una qualche forma di maniera nell’uso della macchina da presa, cosa del resto sottolineata a più voci, si deve però riconoscere anche una saggezza espressiva ben esemplificata dall’uso di una figura chiaramente retorica, ma non per questo di facile utilizzo, come la sospensione. Pur essendo d’accordo nel giudicare abbastanza ovvio il colpo di scena, o pseudo tale, dell’epilogo, infatti, è innegabile che l’intero film sia dominato dall’attesa e la bravura di Shyamalan sta nel rendere questa attesa propedeutica al messaggio finale sospendendo, appunto, facili ricorsi a semplici sbalzi di tensione.
Dopo la parentesi di Signs, deludente in parte per una retorica spirituale troppo accentuata oltre che per l’errata decisione di dare corpo e presenza a quegli alieni che altrimenti sarebbero stati letti, più facilmente di quanto non sia stato fatto, come metafora di fantasmi che tanto hanno a che fare con il nostro tempo, è con The Village che il regista compie il suo definitivo, in attesa di Lady in the Water, passo in avanti, realizzando un film in cui l’attore principale è nascosto dietro tutti gli altri, ma di essi muove le fila. Assecondando la sceneggiatura, di per sé notevole, con una regia ad essa più che congeniale, Shyamalan dà corpo all’orrore, e stavolta è lui che ci conduce da un’estremità (l’oblio) all’altra (la verità) di quel ponte di cui abbiamo già detto, congiungendo la metafisica di un pericolo solo apparentemente soprannaturale con la realtà di una fuga vera e quantomai significativa dal proprio tempo.


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