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IN MY COUNTRY - PERCHE’ SI

Pubblicato il 20 maggio 2004 da Giovanna Quercia


IN MY COUNTRY - PERCHE' SI

Pur non essendo sicuramente una pietra miliare della storia del cinema, né tanto meno un film particolarmente rilevante dal punto di vista del linguaggio cinematografico - anche se la sobrietà dei toni e l’assenza di ogni sensazionalismo sono scelte condivisibili e non scontate visto il tema - non si può liquidare il primo film a grande diffusione sulle Udienze per la Verità e la Riconciliazione come un film “barbaramente inutile” (vedi Perché no). Nella sua imperfezione In My Country possiede, a mio modo di vedere, alcuni meriti per cui vale assolutamente la pena di essere visto, soprattutto in un periodo storico con la curva della violenza in fase ascendente come quello in cui viviamo. Boorman conosce bene il Sudafrica, ci ha viaggiato a più riprese durante e dopo l’apartheid, e si sente. Lo spirito africano dell’ubuntu, ovvero la profonda consapevolezza di essere tutti legati da un invisibile filo, tutti direttamente riguardati da ciò che accade ad altri e lontano da noi, non solo è il tema dell’opera ma pervade effettivamente la direzione del film, la recitazione di Juliette Binoche, la pudica partecipazione con cui si sceglie di scoperchiare un passato grondante di sangue e di violenze quotidiane. In My Country è un film sul perdono, sulla possibilità di costruire un avvenire di pace senza rimuovere la memoria delle atrocità ma anche senza ricorrere ad un semplice ribaltamento manicheo fra vincitori e vinti, tra carnefici e vittime (come è avvenuto in Kossovo, come forse avverrà in Iraq e come si ripropongono tutti i terrorismi dei nostri tempi). In Sudafrica, invece, è avvenuto l’impensabile: si è riusciti a spezzare la catena dell’odio, la legge del sangue chiama sangue, fino a far prevalere la volontà di ricostruzione e di pace. Le udienze per la Verità e Riconciliazione sono state una sorta di psicodramma collettivo, una rappresentazione catartica del dolore che ha permesso ad un paese di voltare pagina. In My Country ha il merito di raccontare per un pubblico ampio questo capitolo miracoloso della Storia con un linguaggio semplice, senza fronzoli e senza eccessive semplificazioni. Boorman sceglie di contaminare il registro documentaristico con quello melodrammatico e romanzesco, è vero. Peccato capitale? No, il regista ha semplicemente trovato un buon compromesso fra film impegnato, nel senso migliore della parola, e cinema popolare, senza tradire la verità dei fatti. In My Country è uno di quei rari film che, a prescindere dai meriti artistici, ha valore per le conoscenze che trasmette, perché si fa portatore di una storia e di un clima morale di cui è bene che molti sappiano. Qualche sbavatura melodrammatica non ne cancella assolutamente la volontà di partecipazione, l’afflato, oserei dire, divulgativo. Forse un film che avesse semplicemente denunciato gli orrori e le torture, magari mettendoli in scena nei dettagli truculenti, sarebbe stato giudicato più rigoroso, più necessario. Indubbiamente un film col dito puntato verso i cattivi, graniticamente teso a suscitare un’immarcescibile indignazione contro i carnefici, sarebbe stato più in linea con lo spirito di vendetta dei nostri tempi e dei nostri schermi (vedi The Passion e il pur straordinario Kill Bill). Probabilmente, ma non avrebbe rispettato lo spirito realmente pacificatore che ha animato l’inaudito percorso di rinascita del Sudafrica.

[maggio 2004]

regia: John Boorman, sceneggiatura: Ann Peacock fotografia: Seamus Deasy, montaggio: Ron Davis interpreti: Samuel L. Jackson, Juliette Binoche, Brendan Gleeson, Menzi “Ngubs” Ngubane, produzione: The Film Consortium Merlin Films, Uk Film Council, origine: Regno Unito/Irlanda 2003, distribuzione: Lucky Red durata: 104’

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