X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

Pubblicato il 26 maggio 2008 da Alessandro Izzi
VOTO:


Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

La Storia è lo sfondo di carton gesso di tutte le sceneggiature dei film della serie di Indiana Jones: strano destino, questo, per una tetralogia che elegge a suo protagonista assoluto un archeologo.
È una sorta di quinta cinematografica che si limita ad incorniciare le vicende in una dimensione riconoscibile, databile, ma a suo modo astratta e non ingombrante per uno spettatore che chiede solo azione senza intermissioni di pensiero. Funge da scenario o, al più, è uno dei motori dell’intreccio (la ricerca dei fantomatici tesori del passato: il sogno dell’archeologo avventuriero), ma giammai aspira ad una credibilità di carattere scientifico. Non passa per i libri, né per i ragionamenti più illuminati degli storici, ma frulla un po’ di paroloni in latino, qualche granello di sanscrito e un’ombra di geroglifico con tanta fantasia e molto movimento. La storia di Indiana Jones è quella sognata dal bambino che contempla le illustrazioni dai libri di scuola delle elementari e ne sogna il contenuto senza passare per la parola del testo scritto. Nella sola immagine c’è quanto basta per esercitare quel po’ di senso d’avventura che in genere perdiamo quando troviamo il nostro bel lavoro dentro un ufficio, ci sposiamo e cominciamo a porci il problema di come arrivare a fine mese.
In questa immagine della storia c’è tutto Lucas: un autore da sempre affascinato dall’archetipo nudo e crudo che è alla base di ogni racconto. La psicologia, come pure una più precisa definizione dello sfondo entro cui la vicenda prende corpo sono abbellimenti stilistici di cui, per l’autore di Star Wars, si può benissimo fare a meno. Quello che conta è la limpidezza della linea narrativa, la precisione quasi antropologica dalla giustapposizione dei vari caratteri (il buono, il cattivo, la principessa in difficoltà) e la costruzione di un meccanismo affabulatorio caratterizzato da un ritmo che non conosce momenti di stanca, ogni altro elemento, certo non disprezzabile, non rientra nel suo campo di indagine. Del resto Lucas si forma sui fumetti (e Indiana Jones è figlio di quelle avventure disegnate) e sui romanzi di fantascienza alla Edmond Hamilton o alla Jack Williamson (e Il regno del teschio di cristallo deve non poco al genuino sense of wonder del genere) e lì, si sa, la credibilità (ma anche lo stile) non sono mai stati la prima preoccupazione di nessuno.
Lucas, però, di suo nei film della serie ci mette appena la fantasia e la voglia di giocare con la macchina cinema. La regia, il problema concreto della messa in scena è tutto a carico di Spielberg che è un autore che con la storia non ci è mai andato leggero.
Di qui il sentimento dicotomico di tutti i film di Indiana Jones nei confronti del passato. Quello che per Lucas è appena uno sfondo plastificato buono solo a farsi ambiente, in Spielberg si accende di bagliori foschi e presaghi. I nazisti di I predatori dell’arca perduta sono cattivi d’operetta finché l’Arca dell’alleanza non viene aperta e il popolo ebreo, per mano del suo Dio, può pretendere un risarcimento, sia pure solo spettacolare, dagli architetti dei campi di concentramento. Quando in L’ultima crociata Indy incontra Hitler, l’ironia della situazione serve appena a stemperare l’orrore del rogo dei libri sulla pubblica piazza, presagio terribile dei prossimi roghi di uomini.
Quello che separa Il regno del teschio di cristallo dai tre precedenti film della serie non è, proseguendo su questa pista critica, soltanto la più definita carica metareferenziale (il primo film era un omaggio affettuoso ai miti della cultura pop, questo è la presa di consapevolezza di come il personaggio sia entrato nell’immaginario collettivo in maniera ancor più profonda di quanto non avessero saputo fare gli stessi modelli sui quali era stato ricalcato), ma anche un più radicato sentimento degli orrori della Storia.
Tra L’ultima crociata e questo straordinario film che fa della sua inattualità una precisa bandiera (rivendica un rifiuto radicale nei confronti dell’invadenza degli effetti speciali tipica del cinema avventuroso contemporaneo, pretende di essere old fashion come il suo protagonista che non nasconde le rughe) sono passati, per Spielberg, titoli amari come Schindler’s list, Salvate il soldato Ryan e Munich. E anche il fantastico non è più stato lo stesso dopo che Kubrick gli ha dettato dall’oltretomba note di regia per A. I. e dopo che Philip K. Dick lo ha spinto verso il noir di Minority report.
Preso tra il pessimismo dolente di chi ha guardato negli occhi l’orrore del passato e l’abbandono al puro movimento dell’avventura, Spielberg ha compresso gli sfondi di carton gesso di Lucas e li ha ridotti in polvere. Un moto convulso, certamente involontario perché a guardare Il regno del teschio di cristallo si ha l’impressione che tutti si siano divertiti un mondo a fare questo film.
Il teschio è un film dominato dalla sabbia. È un film che si sbriciola sotto lo sguardo dello spettatore come le mummie dei conquistadores spagnoli che, non appena liberate dalle bende che le hanno protette per centinaia di anni, si decompongono a vista d’occhio. È una sabbia infida, che si porta dentro il peso del tempo che passa e che non ritorna. Una polvere che seppellisce e nasconde, ma al tempo stesso protegge. Traditrice, come le sabbie mobili nelle quali rischia di morire l’archeologo avventuriero, ma a suo modo necessaria ad alimentare miti e speranze di chi sa che deve scavare sotto quel manto per ritrovare il senso del passato.
Si polverizzano città intere in Il regno del teschio di cristallo. Sia per le esplosioni atomiche prodotte dalla stoltezza umana (sublime la sequenza del fungo nucleare da cui Indy riesce miracolosamente a salvarsi), sia per il semplice passare del tempo.
Privati di uno sfondo rassicurante i personaggi si trovano così a dover macinare la loro avventura su di un filo sottile sospeso nel vuoto. Le azioni si moltiplicano per puro piacere ludico, gli inseguimenti si fanno eterni pur rimanendo sempre divertentissimi, ma sono opera di un equilibrista che potrebbe cadere nel nulla da un momento all’altro. E quel senso di caduta possibile priva il gioco della sua carica innocua. L’ultimo Indiana Jones è come una corsa sulle montagne russe. Fili veloce, ma con una vertigine che ti diverte e non ti rassicura. E quando il trenino si ferma, non sai bene perché, né come, ma qualcosa non è più a posto come prima.


CAST & CREDITS

(Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull); Regia: Steven Spielberg; fotografia: Janusz Kaminski; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti: Harrison Ford (Indiana Jones), Shia LaBeouf (Mutt Williams), Karen Allen (Marion Ravenwood), Cate Blanchett (Irina Spalko), John Hurt (Abner Ravenwood), Ray Winstone (Mac), Jim Broadbent (Professore di Yale); produzione: Paramount Pictures, Lucasfilm, Amblin Entertainment, Santo Domingo Film & Music Video; distribuzione: Universal Pictures International Italy; origine: USA, 2008; durata: 127’; webinfo: Sito ufficiale


Enregistrer au format PDF