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INTERVISTA A FERNANDO E SOLANAS

Pubblicato il 2 gennaio 2009 da Simone Isola


INTERVISTA A FERNANDO E SOLANAS

La sua disponibilità si materializza davanti a noi insieme alla serietà del suo sguardo. Abbiamo deciso di incontrare l’autore di uno dei documentari più incisivi e belli degli ultimi anni: Fernando E. Solanas, il regista dello straordinario La Dignidad de los nadies. Insieme a lui abbiamo cercato di capirne di più sugli ultimi cinque anni dello stato argentino, e lo abbiamo fatto partendo dal rapporto tra il regista e il cinema, un rapporto che non nasce certo oggi.

Solanas: La mia esperienza non si limita alla regia: sono cinquant’anni che faccio cinema, l’ho anche insegnato e sono convinto che quando si lavora occorre farlo con una sceneggiatura aperta, con un’ ipotesi di lavoro precisa: devo sapere dove voglio arrivare. Poi la realtà è talmente ricca che trovi delle cose che non immaginavi ci fossero, ed è questa la cosa più importante, più ricca e più bella del cinema, di un cinema libero e di testimonianza. Per ciò al posto della parola documentario, molto ancorata alla realtà televisiva, preferisco parlare di cinema di creazione libera con una forte base testimoniale, che però recupera tutto un tipo di linguaggio. Naturalmente uso anche il materiale di archivio. E’ questo il cinema che, per il momento, e secondo me, ti permette di offrire la cronaca più oggettiva dei fatti.

La Dignidad è il nuovo capitolo di un progetto già iniziato..

Solanas: è il seguito di un altro capitolo, che si intitola Memorie di un saccheggio. Là il soggetto principale erano gli effetti devastanti prodotti in Argentina dal modello neoliberale: il piano economico imposto dal FMI (fondo monetario internazionale), una vera catastrofe sociale. Già in Memorie di un saccheggio, cercavo di dare una visione oggettiva anche attraverso le sole testimonianze di esperti economisti, intellettuali. Era un film più cinematografico de La dignidad de los Nadies in cui ho utilizzato una steadicam con grandangolo per documentare tutta la parte della burocrazia (questi grandi palazzi vuoti e silenziosi), e una macchina più soggettiva, molto simile a quella de La dignidad, per rappresentare la soggettiva della gente che lotta per le strade. Si trattava un film forte, che denunciava gli imbrogli del governo e delle società internazionali. Insomma, porto avanti l’idea che il governo argentino e L’FMI sarebbero i responsabili di un genocidio sociale che costa all’Argentina 30.000 morti all’anno. In Memorie di un Saccheggio, mostro un ospedale di bambini che muoiono di malattie curabilissime ma i genitori non hanno soldi per acquistare farmaci. I medici e i paramedici ci raccontano che tutte le volte che il governo emana un nuovo piano economico loro sanno che dovranno aumentare il numero dei letti dell’ospedale perché salirà il numero di bambini denutriti. Tutto questo passa per la mafiocrazia: un’organizzazione mafiosa tra lo stato e la collaborazione delle grandi banche internazionali. Questi crimini non devono restare impuniti perché sono genocidi sociali, crimini contro l’umanità. Questa è una delle idee del film Memorie di un saccheggio, che si conclude con l’inssurezione del 21dicembre.

L’impressione che si ha guardando il suo documentario è che lei non tenti di dimostrare una tesi ma che cerchi di mostrare una realtà a tutto tondo e di spiegare il punto di vista del popolo.

Solanas: Cerco di recuperare lo spazio e la voce di coloro che non possono esprimere il loro pensiero. I mezzi di comunicazione di massa annullano l’individuo e allora io cerco di recuperare, con la maggiore oggettività possibile, quest’essenza. Cerco di creare un ponte, di stabilire un rapporto. Devo ammettere di godere del vantaggio che la gente mi conosce da molto tempo e allora mi da fiducia perché conosce la mia storia. Sono stato tra i primi ad opporsi a Menem nell’applicazione del piano neo-liberale e ho subito, nel 1991, un attentato che mi è costato sette pallottole nella gamba. Dopo sono rimasto solo perché tradito da questa forza di sinistra e centrosinistra che si è riversata nel centrodestra. Tutto quello che sostenevo alla fine degli anni 80 e nei 90 si è realizzato: dicevo Andiamo a tutta velocità verso il precipizio. Mi rispondevano che ero matto, un retrograda in fondo anche simpatico. Però ora nel precipizio ci siamo finiti. Nel ’99 la crescita economica era pari a zero, nel 2001 lo stesso. Il fatto che lo avessi previsto ha fatto si che la gente mi aprisse la sua casa e il suo cuore, io sono uno di loro, uno in più.

Le sue immagini sono forti ma allo stesso tempo, ricche di dignità e rispetto: esenti da inutili pietismi, sembra che invitino lo spettatore a riflettere più che a commuoversi. Le nuove tecnologie l’hanno aiutata in questo suo lavoro di denuncia e solidarietà verso il suo paese?

Solanas: Chiaramente è impossibile fare le cose senza una piccola ricerca prima. Fare delle scoperte è fondamentale per cominciare a girare in modo che la camera sia un elemento che faccia parte di te. In questo tipo di lavoro ti capita di uscire nella strada in cerca di un coniglio e di trovare una tigre. Allora prendi la tigre e anche il coniglio perché non sai quale andrà bene. Nel documentario si lavora con un’ipotesi aperta e poi inizia un lavoro di sintesi e rielaborazione che diventa dieci volte più lungo di quello impiegato per girare. Ho usato una macchina piccolissima capace di girare moltissimo. Questo è un vantaggio ma anche un problema perché hai tantissimo materiale che però poi devi saper gestire nel modo migliore, e non è facile. Questo film è stato girato in 40/50 giorni e abbiamo lavorato in montaggio per quasi un’anno.

Per quanto riguarda la distribuzione del film che cosa è accaduto in Argentina?

Ci sono stati dei problemi. Per esempio questa settimana non volevano darmi le sale. Poi grazie al successo di Venezia e alle critiche positive ne ho ottenuto due in più. Io conosco la forza del film, so che emoziona e che se ne parlerà bene. In questo senso il festival è molto utile, anche se lo vivo un po’ come una tortura. Soprattutto non gradisco l’idea del premio che ritengo abbastanza priva di senso. Il premio non aggiunge valore al film, che rimane sempre lo stesso. Il fatto di vincere un premio significa che cinque membri di una giuria lo hanno apprezzato, un’altra giuria avrebbe premiato un altro film. Però per noi è il solo modo per mettere in luce il nostro lavoro. Il festival deve essere un luogo di incontro culturale dove esporre un’opera, non servono i premi. Anzi, diventano un fatto concorrenziale pericoloso.

Torniamo al suo modo di dirigere e organizzare un film...

Solanas: Abbiamo parlato della sceneggiatura aperta. Nella vita tutto ha bisogno di un montaggio, inteso come organizzazione delle informazioni che vengono fornite, quasi una progressione. Si introduce un discorso e poi lo si sviluppa con una certa crescita, altrimenti la gente se ne va. Si deve sviluppare un linguaggio con una struttura che permetta un’organizzazione drammatica e tematica del soggetto. Tutti i miei film sono molto lontani dalla struttura narrativa del cinema Hollywoodiano. Il film va avanti se la cosa che viene è più interessante di quella che la precede. La conclusione del film non la fa il regista ma il cuore, la testa e l’immaginazione dello spettatore esattamente come in un libro. Ciò mi fa lavorare con molta modestia perché bisogna essere disposti a cambiare: io faccio molti test, finisco il montaggio e lo mostro a dieci, quindici persone, poi raccolgo le loro opinioni e faccio delle modifiche.

Quindi lei considera lo spettatore parte attiva del suo lavoro. Chiede una partecipazione?

Solanas: Ti dico una cosa: tu devi inginocchiarti di fronte allo spettatore, perché l’offerta contemporanea è fortissima. Penso alla televisione, alle conferenze, ai libri, alle discoteche. Quindi che scelgano di venire a vedere il tuo film è straordinario no?

Si, ma l’idea che sembra nascere da un certo documentarismo è che chi osserva non debba trarre delle conclusioni personali ma semplicemente assumere il punto di vista del regista...

Solanas: Io sto nel mezzo: cerco di provocare la partecipazione attiva dello spettatore. Il mio tipo di cinema crea partecipazione e riflessione. Chiaramente sono io l’autore e io che dico le cose ma in generale cerco di provocare lo spettatore. Non esiste un tipo di pubblico: in alcuni momenti il film arriva ad un pubblico più colto, intellettuale. In altri arriva a tutti. Non si deve abbassare la qualità dell’opera. Io tento di fare un film di altissima qualità culturale e che abbia una risposta e una grande diffussione perché deve arrivare al cuore delle gente. Il finale di Memoria di un saccheggio è una sintesi di dieci anni di mobilitazione sociale, la stessa mobilitazione che impedisce ad Amenen e a De la Rua di continuare con lo sviluppo del piano neo liberale, la stessa mobilitazione che impedisce un’uscita di tipo neorepressiva. Ma io avevo bisogno di mettere in chiaro che cosa era questa contestazione sociale e da qui nasce La dignidad de los Nadies: la dignità, il motore della contestazione sociale; la gente, gli anonimi quotidiani. Il loro coraggio e la volontà di vincere.

C’è un momento molto bello in cui una donna anziana dice io non voglio soldi senza lavorare, voglio lavorare ed essere pagata..

Solanas: Esatto, queste sono le cose più interessanti del film. Questo accampamento “Piquettero” è interessantissimo perché da fuori si ha un’idea diversa di quello che è. Invece ci sono persone che non hanno nulla, che non mangiano tutti i giorni, senza assicurazione sociale, né altro, ma rappresentanti di un fatto sociale straordinario. I Piquettes sono momenti di aggregazione fondamentali, di compartecipazione, dove tutti sono obbligati alla cooperazione. Come se per vincere la disperazione e la povertà una delle soluzione potesse essere quella di stare insieme e dividere quel poco che si ha. E’ una cosa molto forte. E’ un film sull’aggregazione e la partecipazione. In tutto il film ci sono storie di solidarietà e di partecipazione.

E’ prevista una distribuzione in Italia?

Ci sono due o tre distributori interessati.

E nuovi progetti?

In ottobre comincio il terzo film, Argentina Latente: la storia di un paese che può uscire dalla povertà. La distruzione del mito che se si è poveri non si può uscire dalla povertà.

Nel documentario si avverte che il popolo argentino ha una forza particolare, pensiamo alle donne che rimangono a lavorare nei campi e li difendono dall’esproprio..

Sono donne bravissime, le più attrezzate. Non sono intellettuali ma contadine. E’ stata la realtà a cambiarle. Cantano l’inno e pregano:ancora la forza collettiva. Perché quando si canta l’inno,per legge, la polizia non può fare nulla.


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