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Intervista ad Alessandro Comodin

Pubblicato il 8 settembre 2012 da Edoardo Zaccagnini


Intervista ad Alessandro Comodin

Piacevole sorpresa, L’estate di Giacomo, di Alessandro Comodin, che ha vinto il Pardo d’oro a Locarno 2011, sezione “Cineasti del presente”. Un film poetico, sottile e delicato, sospeso abilmente su vari confini. L’autore è friulano, ma ha studiato cinema a Parigi e Bruxelles. Vive in Francia da anni, e per prima cosa gli abbiamo chiesto perché abbia detto “ciao” al nostro Paese.

Vengo da una campagna dove i cinema non c’erano. Il cinema l’ho studiato a Bologna, dove ho visto tanti film. Poi l’Erasmus in Francia, ancora prima di capire che volevo fare il regista. Qui mi sono trovato bene e ho incontrato persone interessanti. Con alcune di loro ho vissuto l’esperienza della “Scuola Delle Arti” di Bruxelles, dove ho conosciuto registi che facevano film con niente, e dai quali ho capito che potevo lavorare in maniera artigianale e libera.

De L’estate di Giacomo sei regista e sceneggiatore. Figuri nel montaggio, nella produzione e sei operatore alla macchina. Solo esigenze produttive o credi nella figura dell’autore unico, totale?

Diciamo che l’unico posto in cui non mi sentivo a mio agio è stato quello del produttore. Ma non potrei non filmare io, questo proprio no, sarebbe impossibile non avere in mano la macchina.

Il tuo film è opera di confine tra documentario e finzione, tra adolescenza ed età adulta, tra favola e realismo, tra la biografia del protagonista e quella del regista..

Finzione e documentario, per me, sono definizioni complicate da dare. Non ho mai pensato di fare del mio film né una finzione né un documentario. L’abbiamo finanziato come un documentario e come tale l’ho girato. Ma l’ho montato come se fosse finzione. C’è ricchezza nel rimanere tra il modo dell’uno e dell’altro di vedere le cose: uno spazio maggiore per lo spettatore, un’originalità fertile, un campo libero e ricco di cose che vengono da entrambi i lati.

Nel film vediamo i luoghi della tua infanzia, quanto c’è di autobiografico nel film?

Tantissimo, ma non volevo raccontare la mia storia personale, per altro poco interessante. L’eccitazione e la spinta per realizzare il film è arrivata da un ragazzo che conoscevo bene, che era delle mie parti, che aveva un problema con ciò che lo circondava. Anch’io mi ero sentito come lui in quei posti, anni prima, con tutte le virgolette del caso. Ho portato Giacomo negli stessi luoghi dove andavo io da ragazzo, da solo. Riguardando le immagini mi sono ricordato di certe atmosfere, del rapporto tra un giovane e i suoi luoghi.

I protagonisti del tuo film sono dei non attori. Coma hai lavorato per renderli così naturali?

C’è stato un lungo lavoro, soprattutto con Stefania e Giacomo, che conoscevo molto bene. Ho iniziato a filmare nel 2009, cose che poi non ho usato, quando non avevo ancora bene in testa cosa raccontare. Tutto il lavoro di ricerca del soggetto stesso mi ha fatto frequentare Giacomo a lungo, e mi ha fatto rimescolare le idee nel corso del tempo. Notavo che lui era diventato sempre più naturale e allora ho continuato ad insistere. Ho sempre cercato di far reagire i protagonisti davanti a microelementi di finzione. Sul set eravamo in pochi, tutti amici, magari stavamo insieme senza girare, facevamo il bagno, poi succedeva qualcosa e iniziavamo a girare..

Chi è Giacomo, e come è nata l’idea del film?

Giacomo è un ragazzo sordo dalla nascita, che io conosco da sempre. A diciotto anni ha deciso di farsi operare per iniziare a sentire, e questa storia mi ha appassionato da subito, perché volevo raccontare il passaggio all’età adulta attraverso il suono. Ho seguito, col metodo del documentario, il suo processo chirurgico, e poi l’attivazione dell’apparecchio e la logopedia. Volevo allargare il discorso con momenti di quotidiano, ma al montaggio mi sono reso conto che era tutto troppo intellettuale e artificiale, e così ho deciso di montare solo alcune parti.

Hai usato solo il girato in pellicola..

La pellicola ha diversi svantaggi, ma il vantaggio di creare uno spazio cinematografico. I ragazzi sapevano che non si poteva perdere tempo, perché c’era una questione di costi. La pellicola è stata indispensabile per avere qualcosa di naturale, perché ha prodotto una tensione costruttiva e l’energia giusta per tutti.

Il film lavora per sottrazione, il cambiamento di Giacomo non viene descritto in maniera didascalica..

Si, a me non piace dire troppe cose, mi piace che lo spettatore capisca da sé, anzi che senta, che avverta che partecipi alla costruzione del senso. Non è facile da spiegare, perché tutto avviene su piccoli dettagli molto semplici. Ma già il modo di girare, il fatto di prendere poche immagine anziché molte (il film ha molti piani sequenza), dà allo spettatore il senso della mia ricerca. Volevo raccontare un momento importante della vita che potesse essere comprensibile e valido per tutti.

Partendo dal reale..

Cercando e insistendo, perché avendo fiducia nel reale puoi trovare qualcosa di universale. E’ importante aspettare, e provocare le cose in maniera molto leggera, con pazienza, finché non trovi qualcosa che si manifesti da sola. E questo porta a qualcosa di quasi astratto, di poetico, di fiabesco per certi versi.

Il film può essere letto allargandolo, cioè come una storia molto più universale..

Mi piace poter raccontare delle grandi cose con piccoli elementi del reale. Penso, con questo film, di esserci riuscito perché tutti me ne parlano, mi dicono di aver pensato a propri momenti personali partendo dal mio film.

ConL’estate di Giacomo hai vinto un premio importante..

Per me è stata una grande sorpresa, se penso da dove vengo e il modo in cui abbiamo realizzato il film, sono davvero molto soddisfatto. Ora bisognerà farne un altro, e non sarà facile. So, però, di voler lavorare sempre in questo modo, facendo film piccoli, tra amici, in una dimensione artigianale. Per ora mi piace lavorare così, e non ho voglia di cambiare.

Ma hai già delle idee...Penso che non mi scosterò tantissimo dal modo in cui ho lavorato con Giacomo, anche se con lui ho avuto un rapporto privilegiato. Magari ho un’idea, però so che devo trovare la persona giusta che possa veicolare quello che voglio dire. Ho l’impressione che debbo aspettare che il reale mi regali qualcosa, lo spunto che poi mi permetta di poterci lavorare sopra. Sono in cerca di certe persone...


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