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Into the wild

Pubblicato il 25 gennaio 2008 da Alessandro Izzi


Into the wild

Chris McCandless è un ragazzo di ventidue anni fresco di laurea. La sua è una vita sicura, medio borghese, apparentemente tranquilla. Il suo futuro è indirizzato verso un praticantato in legge e una successiva sicura professione gratificata dal più lauto degli stipendi, da una casa, da un’automobile nuova. Figli magari. Eppure una mattina, proprio subito dopo la consegna dei diplomi di laurea, senza una parola e senza un saluto, Chris fa dono di tutti i suoi risparmi ad associazioni caritatevoli, prende la sua macchina che è un po’ un rottame e si mette per strada. Senza una meta, sognando, ad occhi aperti, il sogno di una vita, into the wild, nella natura selvaggia. Da solo.

Fin dall’inizio il viaggio di Chris si configura, per lo spettatore, come una sorta di impresa dalla doppia anima.
Da una parte il giovane scappa dal mondo contemporaneo, fugge letteralmente dalle “ricchezze” di una società capitalistica fondata sull’accumulo delle “cose” e dei così detti beni materiali. Chris, e non ci vuole molto per accorgersene, rifiuta ogni forma di “possesso”. I soldi di famiglia preferisce donarli a chi ne ha più bisogno, quelli che per caso si trovano nel suo portafogli diventano carta straccia per un piccolo, catartico falò. Tutto ciò di cui ha bisogno si riduce ad uno zaino da viaggio, ad un paio di scarpe comode e ad una lunga strada davanti a sé. Un aggiornamento del classico modello beat generation di personaggio on the road. Un hippy, ben educato e con la testa ben piantata sulle spalle, che non ne può più di una società, come quella in cui era stato costretto a vivere fino a quel momento, fondata sulla sopraffazione e sulla menzogna, sulla legge del più forte che trionfa sul più debole. Chris è un ultimo romantico. Sogna la Natura così come questa è cantata dai versi di Lord Byron, si immerge nei suoi libri, unico conforto di poca verità in un mondo dove la bugia è la moneta di maggio corso, con l’avidità che è tipica della sua giovane età. E consapevole di non riuscire a trovare una strada concreta per cambiare dall’interno questa realtà, preferisce rifuggirla. Non perché ami poco gli uomini, in fondo, ma perché ama la Natura di più. Ama la sua semplicità immediata (vista con quell’occhio un po’ borghese di un giovane uomo che non è mai andato più in là dei campeggi dei boyscouts), ama il suo sapore di piana incontrovertibile verità.
Ma Chris fugge anche, soprattutto, dalla sua famiglia. Scappa da genitori che lo amano anche troppo e che cercano di viziarlo, ma non sono mai stati realmente sinceri né con lui, né tra di loro. Odia la loro estrazione piccolo borghese, la loro ansia di non finire sulla bocca del vicinato ad alimentar chiacchiere da cortile. Non sopporta il loro essere parte di un sistema perverso dove a contare è la forma più che la sostanza. Detesta l’ipocrisia della facciata di famiglia rispettabile che hanno costruito per farne immagine da sfoggiare in società quando, in realtà, tutti i rapporti interpersonali, tra genitori e figli, ma anche tra padre e madre, poggiano su conflitti dilanianti e situazioni irrisolte.
Soprattutto Chris fugge da se stesso. Perché quelle cose che vede nella società, nella famiglia, negli altri, sono irrimediabilmente, tragicamente parte non eliminabile di sé. E per quanto si affanni a fuggire in ogni possibile direzione, accarezzando perennemente il suo sogno di un’Alaska felice dove poter stare, solo, in mezzo alla natura incontaminata, la città, la civiltà è per lui sempre fonte di tentazione, una vertigine da cui non riesce mai del tutto a liberarsi (si pensi alla scena esemplare in cui si ferma, per un breve momento, a fissare un gruppo di borghesi che brindano in un bar ed uno di questi diventa la sua immagine riflessa, quello che diventerebbe se solo accettasse di fermarsi dal suo girovagare sia pure per una sola notte).
Dalla civiltà, ma anche dalla famiglia non si fugge mai. È un’utopia irrealizzabile perché, comunque, si ha sempre bisogno di un fucile per cacciare, di un retino per pescare, di un manuale per imparare come conservare i cibi e quindi di soldi. Nel suo mito del buon selvaggio che si reca a nord per riscoprire se stesso, Chris ha comunque bisogno di un vecchio autobus abbandonato (quindi un rifiuto di quella civiltà da cui dice di voler fuggire) per costruirsi un riparo dalle intemperie. E quando guarda verso il cielo sono aerei quelli che vede: un segno tangibile della civiltà al lavoro, ma anche un correlativo visivo di quel padre (che era un tecnico della NASA che sul volo umano ha fondato il suo impero) da cui, più di tutto, desiderava scappare.

Ma il tema della fuga non esaurisce le motivazioni di Chris. A questo si aggiunge, disperato, un non meno romantico anelito d’infinito. La sua è una ricerca di Verità, un bisogno irrefrenabile di purezza. Chris, da questo punto di vista, è l’esatto contrario, pur nella condivisione del nome di battesimo, del Chris di The pursuit of happyness di Muccino. Se il protagonista del film mucciniano, infatti, cercava la propria realizzazione nel pieno della società (fino a diventare un vero e proprio brooker), il protagonista della splendida pellicola di Penn deve cercare altrove la propria felicità. Se il primo si ritrovava isolato, reietto disperato di un sistema che lo faceva povero e cercava negli altri la possibilità di esaudire il proprio sogno, il secondo decide di farsi reietto per farsi solo. Egli cerca la propria felicità lontano dagli altri ed indipendentemente dagli altri. Salvo poi scoprire, sulla propria stessa pelle, che non esiste nessuna felicità se essa non è condivisa, se non si allarga all’esperienza degli altri.

È quindi la rappresentazione di un calvario laico, Into the wild. Un film che, però, contrariamente alle possibili aspettative, non cerca di costruire a tavolino un nuovo santo per le nuove generazioni, ma cerca, al contrario, di seguire un personaggio in tutte le sue contraddizioni, accarezzandone tanto i pregi quanto i difetti. Un romanzo di formazione, quello scritto da Sean Penn, abilmente diviso in capitoli precisi, ciascuno con un suo stile distintivo (franto, animato dall’uso dello split screen quello adolescenziale, più lirico e contemplativo quello che prelude al raggiungimento di una saggezza finalmente adulta). Un’opera che parlandoci del bisogno di valori più reali, più concreti, più veri si oppone ad una società (quella americana, ma, per estensione, quella occidentale) fondata sullo sfruttamento e sulla sopraffazione (“avere soldi ci rende tutti sospettosi” dice Chris ad un certo punto). Un film di mente e di cuore, splendidamente filmato ed ottimamente interpretato che ha qualche difetto (la prima parte sembra un po’ lenta, l’immagine che dà della Natura selvaggia sembra un po’ addomesticata) che si perdona rapidamente in considerazione delle emozioni profonde che riesce a regalarci. Una conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che Penn è davvero uno degli autori più originali ed importanti attualmente sulla scena.

Conferenza Stampa del film

Colonna sonora di Eddie Vedder


CAST & CREDITS

(Into the wild); Regia e sceneggiatura: Sean Penn; fotografia: Eric Gautier; montaggio: Jay Lash Cassidy; musica: Michael Brook, Kaki King, Eddie Vedder; interpreti: Emile Hirsch (Christopher McCandless), Marcia Gay Harden (Billie McCandless), William Hurt (Walt McCandless), Jena Malone (Carine McCandless), Brian Dierker (Rainey), Catherine Keener (Jan Burres), Vince Vaughn (Wayne Westerberg), Kristen Stewart (Tracy), Hal Holbrook (Ron Franz); produzione: Art Linson, Sean Penn, William Pohlad; distribzuone: BIM; origine: USA, 2007; durata: 140’


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