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James Cameron - L’uomo dei record

Pubblicato il 19 gennaio 2010 da Simone Spoladori


James Cameron - L'uomo dei record

Avatar è uscito finalmente anche in Italia e come in tutto il resto del mondo, dove gli spettatori hanno potuto vederlo da almeno un mese, anche da noi la reazione è stata entusiastica: code al botteghino, cinema affollati, reazioni euforiche e sbalordite di pubblico e critica. Cameron è sempre stato un grande sperimentatore, un innovatore, un regista che ha quasi sempre inciso sulla storia del cinema, ad ogni tappa del suo percorso artistico.
Ripercorriamo, allora, le tappe principali della sua carriera, dagli esordi fino ad Avatar, per comprendere chi sia il regista dietro ad alcuni dei più grandi successi della storia del cinema.

Gli inizi

James Cameron è uno dei molti registi hollywoodiani formatisi alla corte di Roger Corman, come Coppola o Scorsese nella generazione precedente o Joe Dante fra i suoi coevi.
E’ quantomeno curiosa la varietà del percorso che il regista canadese compie per giungere, nel 1980, fra gli animatori della Corman Factory. Inizia a studiare fisica al college, si diploma però in filosofia, si appassiona al mondo degli effetti speciali e alla scrittura, sceglie di fare a tempo pieno il camionista per sbarcare il lunario nell’attesa della giusta occasione. Il film che lo convince a tentare le vie dello show business è Guerre stellari (1977) di Lucas, dal quale prende spunto per realizzare il suo corto d’esordio, Xenogenesis (1978), girato già in 35 mm grazie a fondi cospicui raccolti fra amici e parenti particolarmente munifici.
Il lavoro è facilmente e interamente recuperabile in rete, e, per quanto ingenuo e datato, sbalordisce per la qualità degli effetti speciali artigianali che lo caratterizzano.
Il cinema di Cameron nasce, insomma, nel segno della sperimentazione, della passione artigianale e laboratoriale per i trucchi, per l’inganno dello sguardo. E nasce, da subito, con la voglia e il desiderio di raccontare altri mondi. Anche l’esilissima trama anticipa l’universo cameroniano: il valore della libertà individuale, il conflitto con la macchina, l’etica della tecnologia. Cameron fa tutto: scrive, dirige, costruisce letteralmente gli effetti speciali e visivi, monta. Il corto è un flop che non troverà mai distribuzione o visibilità, ma diventerà, anni dopo, un cult per appassionati.
Gli vale però l’ingaggio da parte di Corman, che lo mette al lavoro sugli effetti speciali di b-movies come I magnifici sette dello spazio (1980) di Jim Murakami, Il pianeta del terrore (1981) di Bruce D. Clark e Android (1982) di Aaron Lipstadt.
Viene reclutato anche nel team degli effetti speciali di 1997 - Fuga da New York (1981) di John Carpenter, per le sue straordinarie qualità di disegnatore e progettista di modellini.
Nel 1981 Corman lo mette alla regia di Piranha Paura (Piranha Part Two: The Spawning), il seguito “minore” di Piranha (1978) di Joe Dante. Tra mille problemi di budget e i conflitti con il produttore esecutivo Ovidio G. Assonitis - che si vanterà poi di aver diretto personalmente il film a causa dell’inesperienza di Cameron - James porta a termine il suo lungometraggio d’esordio. Un lavoro di cui, naturalmente, non riconoscerà mai fino in fondo la paternità e che in effetti sembra il prodotto più distante dal suo immaginario che egli abbia mai realizzato. Non tutti i mali vengono per nuocere: il regista racconta di aver avuto un incubo una notte durante le riprese di Piranha paura, a causa dello stress per i problemi produttivi e di un racconto che Assonitis gli aveva fatto sul set. In quest’incubo si vedeva perseguitato da un indistruttibile robot mandato dal futuro per ucciderlo.
Un incubo che, per sua fortuna, si trasforma in realtà. Quasi.

Terminator

A partire da quella suggestione notturna, Cameron scrive la sceneggiatura di Terminator (The Terminator, 1984) e cerca di venderla ad un produttore che gli permetta anche di dirigere il film. Molte majors si dimostrano interessate allo script, ma rifiutano categoricamente di affidare una produzione del genere nelle mani di un semiesordiente.
Accetta questa condizione Gale Anne Hurd della Pacific Western Company, una società indipendente che aveva lavorato con Cameron in alcune produzioni di Corman. Cameron vende alla Hurd la sceneggiatura per solo un dollaro in cambio della regia del film. Il regista azzecca anche il cast, regalando ad Arnold Schwarzenegger e a Linda Hamilton i ruoli decisivi per la loro carriera.
Con un budget di soli 6 milioni di dollari e la distribuzione della piccola Orion Pictures, il film ne incassa 78.
La vicenda è nota. Da un futuro in cui un network di computer creato dall’uomo, chiamato Skynet, ha preso il controllo del mondo, giunge un androide assassino con il compito di uccidere Sarah Connor, la madre del futuro capo della resistenza umana. Kyle Rees, uno dei ribelli, viene a sua volta spedito nel passato per bloccare la spietata macchina. Ne scaturisce, naturalmente, una lotta spietata. Terminator mostra al mondo l’essenza del cinema di James Cameron. Allucinato, iperrealista, cupo, talvolta claustrofobico, declina il conflitto uomo-macchina ragionando sull’etica del progresso senza controllo, con abbondanti squarci umanistici e profusione postmoderna di citazioni.
Il ritmo e lo sguardo da b-movie si fondono con la capacità indiscussa di ragionare in chiave simbolica e metaforica sul delirio tecnocrate della società. Si affaccia, inoltre, un paradosso destinato ad ingigantirsi e in un certo senso a fare grande il cinema di Cameron. Un film, che è “possibile” nella sua messinscena solo grazie alla tecnologia e all’assottigliamento del confine tra filmico e profilmico, diventa critica contro la pericolosità dell’uso indiscriminato degli apparati tecnologici. Un crinale labile, sottilissimo, che viene percorso efficacemente da una figura ricorrente del cinema di Cameron, l’eroina femminile, forte, emancipata, indipendente. Qui, Sarah Connor si ritrova suo malgrado coinvolta nella lotta per il destino dell’umanità e madre del messia, ma è comunque la diretta precorritrice di Ellen Ripley, di Rose e dell’aliena Na’Vi Neytiri di Avatar.

Aliens scontro finale

Nel 1985 Cameron scrive la prima stesura della sceneggiatura di Rambo II - la vendetta (1985), diretto da George P. Cosmatos, poi completata da Sylvester Stallone. Il senso del ritmo di questo secondo episodio, che lo rende il migliore della serie, si deve interamente a Cameron.
Sempre in quell’anno, il regista canadese viene chiamato a scrivere e a dirigere il seguito del grande successo di Ridley Scott, Alien (1979). Scott si è infatti rifiutato di dirigerne un secondo episodio, mentre Cameron accetta al volo l’occasione e si mette al lavoro, nonostante l’ostilità della troupe, la stessa del primo film, che non vede di buon occhio un regista così inesperto alla guida di un blockbuster. Nonostante questo ed altri problemi, il film sbanca il box office e ottiene sei candidature agli oscar, aggiudicandosene uno, quello per gli effetti speciali e visivi.
Rispetto al predecessore, Cameron compie un’intelligente operazione di personalizzazione e di diversificazione. Si allontana dalle traiettorie horror del film di Scott, si concede quei tempi lunghi e dilatati che diventano un suo marchio di fabbrica. Per quasi un’ora non succede nulla, ma viene concessa una preliminare familiarizzazione con i personaggi. Dopo l’approfondimento psicologico, arriva il cambio di ritmo e per la seconda ora e mezza il film non concede soste.
La lotta di Ripley, in questo caso, non è soltanto con gli alieni, ma, come sempre in Camero, anche con il potere, sia quello politico che quello economico. La multinazionale che ha colonizzato la luna LV426 è cieca e insensibile alle ragioni della natura, proprio come lo sarà la grande società che vuole distruggere Pandora in Avatar. La messinscena claustrofobica e cupa, costantemente notturna di Cameron completa sul piano estetico un’opera di culto, che riesce a garantire al regista di Terminator l’agognata indipendenza creativa e produttiva. Sulle orme di Spielberg e Lucas, ha finalmente vinto lo scetticismo del sistema e ora può realizzare davvero ciò che vuole, secondo un percorso costantemente al confine tra autorialità e blockbuster che caratterizza anche altri grandi registi americani coevi a Cameron, come Tim Burton, altro grande costruttore di mondi e immaginari, o, in misura diversa, Robert Zemeckis.

The Abyss

Nel 1987, Cameron mette in cantiere la lavorazione di The Abyss. Non solo è il suo primo progetto personale, ma, in quanto tale, è anche la prima vera sfida al sistema e ai limiti stessi della messinscena cinematografica che Cameron lancia. La prima di una lunga serie. La prima conseguenza è una lavorazione travagliatissima di oltre due anni, per buona parte sott’acqua a dodici metri di profondità per simulare le insidie degli abissi, ricostruite in una cisterna ricavata da un contenitore inizialmente progettato per un reattore nucleare. E poi c’è il budget previsto, 40 milioni di dollari, che nel corso dei mesi quasi raddoppia. Intanto anche il matrimonio con Gale Ann Hurd, produttrice di Terminator, naufraga durante le riprese e viene da Cameron proiettato nel film attraverso i problemi coniugali tra il personaggio di Ed Harris e di Mary Elizabeth Mastrantonio.
Il plot è intricato, aggrovigliato e prolisso, ma è una summa del cinema di Cameron. Oltre ai temi fin qui evidenziati, tutti presenti, nel viaggio negli abissi di un gruppo di Navy Seal incaricati di recuperare un sommergibile nucleare americano - e che invece troveranno gli alieni - si ritrovano gli apocalittici scenari postatomici di Terminator, lo spirito ecologico che finirà per permeare l’ultimo Avatar, la critica spietata all’avidità delle multinazionali, un visibilissimo afflato femminista.
Per alcuni è il capolavoro di Cameron, per altri un pasticcio presuntuoso e pretestuoso.
Al botteghino il film va discretamente, consentendo il pieno recupero dell’investimento, finendo per incassare in tutto il mondo circa 90 milioni di dollari.

Terminator 2 - Il giorno del giudizio

Subito dopo The Abyss, Cameron decide che è il momento di dare un sequel al film che lo ha lanciato. Per farlo, decide di spostare una tacca più in là il concetto di effetti speciali e di fotorealismo digitale. Riacquisiti non senza qualche problema i diritti della saga, Cameron tova nella Columbia Tristar la major intenzionata a produrre e distribuire. Un anno di riprese e 100 milioni di dollari di budget sono necessari alla realizzazione di questo sequel che vede Schwarzenegger ancora nei panni del T-800, questa volta però mandato nel 1994 dai ribelli (dieci anni dopo, quindi, rispetto al primo film) per proteggere Sarah Connor e suo figlio John dallo spaventoso T-1000, un robot “liquido” che può assumere qualsiasi forma. Con sofisticate tecniche di morphing digitale, gli effetti speciali del film risultano davvero sbalorditivi, mentre rispetto al primo film trama e carica simbolica si assottigliano un po’, anche a causa di una condizione posta dalla Columbia, visto quel che era successo per The Abyss: massimo un anno di prese.
Cameron corre e rispetta i tempi, realizzando un film che incassa 500 milioni di dollari in tutto il mondo, all’epoca il più grande successo di tutti i tempi. L’aspetto più interessante del film, in effetti, risiede nell’utilizzo massiccio in chiave narrativa degli effetti digitali, nella sempre più indistinguibile interazione tra immagini digitalmente generate e girato. Con Jurassic Park (1993) di Spielberg viene compiuto un ulteriore passo in avanti, che Cameron decide di sfruttare immediatamente con il successivo True Lies.

True Lies

E’ la prima e unica incursione di Cameron nella commedia, esperimento tutto sommato riuscito. Nonostante i toni da screwball comedy, il regista canadese decide di servirsi di ben 110 milioni di dollari per mettere in scena la sua guerra dei sessi. Remake del francese La totale! (1991), True Lies racconta la storia di un impacciato ingegnere informatico che in realtà è un agente della temibile Omega, agenzia al servizio del governo degli Stati Uniti, e che oltre ad una pericolosa missione per salvare il suo paese deve portarne a termine un’altra altrettanto delicata: salvare il suo matrimonio, perché la moglie (una splendida Jamie Lee Curtis) è annoiata e stufa dei suoi continui viaggi di lavoro.
Gli elementi su cui riflettere sono sicuramente gli effetti speciali, candidati all’oscar nel 1995. Con Jurassic Park Spielberg e il suo team avevano reso indistinguibili dalle riprese reali le immagini dei dinosauri ricreati al computer. Ma si trattava pur sempre di dinosauri, per cui concettualmente in qualche modo “separabili” dal girato. Con True Lies, Cameron si avvale dello stesso principio utilizzato dal collega per i giganteschi rettili, basata sull’impoverimento delle immagine generate in CGI, che un tempo, poichè più risolute, spiccavano sul girato per qualità e nitore. Con Terminator 2 aveva dato intelligentemente una collocazione corretta alle immagini digitali del T-1000, che erano in qualche modo plausibilmente più definite perché “provenienti dal futuro”. In True Lies, gli oggetti generati sono elementi “esistenti”. Si frantuma il legame ontologico tra l’immagine filmica e il suo corrispettivo reale, si polverizzano i confini tra filmico e profilmico.
Tre anni dopo, Cameron, alza di nuovo la posta. E riscrive ancora la storia del cinema.

Titanic

Due anni di lavoro. E’ quanto serve a James Cameron per frantumare ogni primato e per realizzare un film che è già leggenda.
Titanic, che esce nel 1997, è semplicemente il film dei record. Il più costoso della storia del cinema, con 200 milioni di dollari di budget. Quello cha ha incassato di più, con una cifra vicina ai due miliardi di dollari in tutto il mondo. Il record di oscar vinti, undici, eguagliando Ben Hur (1958, William Wyler).
Titanic è un kolossal smisurato, folle, barocco, anacronistico, un melodramma fuori tempo massimo che riporta in vita i fasti di Via col vento (1939, Victor Fleming) e di uno spettacolo di massa che si è perso nel tempo, che fonde amore e catastrofe in una cascata fiammeggiante di effetti speciali ed epica da antologia. Nel cuore della storia di Rose e Jack, raccontata in un lungo flashback, si annida un poderoso inno alla libertà, un vitale apologo anticlassista, un invito ad inseguire i propri sogni, anche e sempre contro una società che attraverso le risacche di potere costituito cerca di soffocare le individualità.
Il fotorealismo sintetico è ormai allo stato dell’arte, Titanic è un pezzo di storia del cinema.
Dopo il trionfo, Cameron deve prendersi una lunga pausa. Difficile proseguire, andare avanti, progredire quando ormai tutti gli obiettivi sembrano centrati.
Così il regista canadese, mentre si dedica alla realizzazione di alcuni ottimi documentari, e della serie televisiva Dark Angel (2000-2002), inizia a scrivere una storia di fantascienza. Si intitola Avatar. L’immaginazione di Cameron però è oltre la realtà: per realizzare il mondo di Pandora, ambientazione della storia, non esistono ancora le tecnologie necessarie. Inizia la lunga attesa.

Avatar

Attesa che per Cameron termina nel 2005, quando finalmente la preproduzione di Avatar può iniziare. Sarà un lavoro lunghissimo, di quasi quattro anni, per un costo totale di 237 milioni di dollari. Le tecniche di ripresa che rendono possibile la realizzazione del film sono una completa reinvenzione del motion capture, che permette al regista di vedere in tempo reale, attraverso una camera virtuale, gli attori trasformati in “personaggi” interagire con il contesto “digitale” delle inquadrature e nuove camere stereoscopiche che consentono un 3D di maggiore impatto e di maggiore efficacia.
Anche il plot è una straordinaria mitologia dal poderoso significato simbolico. Un marine in sedia a rotelle controlla per mezzo di sofisticati software il corpo - Avatar, appunto - di un alieno creato in laboratorio mescolando parti del suo dna al patrimonio genetico della razza Na’Vi. Una rilettura, insomma, del senso profondo di tutta la civiltà digitale, della cultura dei social network, da second life a qualsiasi altra forma di identità virtuale, nella struttura di una complessa saga epica che rimescola e rielabora riferimenti di ogni genere, dall’epopea western a Tolkien, da Guerre stellari alla triste storia del colonialismo.
Non mancano, in questo colossale capolavoro milionario, gli spunti politici e i riferimenti all’attualità, a dimostrazione che il cinema americano popolare continua ad evidenziare la caratteristica peculiare di saper parlare del mondo e della società che lo partorisce con una forza simbolica sconosciuta a molto cinema europeo, anche sfidando apertamente le contraddizioni costitutive. Per cui, in un blockbuster che invade in massa le sale di tutto il mondo, soffia comunque un vento antimperialista, pacifista, ecologista. Pulsa, insomma, il cuore vitale e magmatico del cinema di James Cameron. Il budget immenso investito nella produzione rientra nelle casse della 20th Century Fox nel primo weekend di distribuzione nelle sole sale americane, a conferma che Cameron è davvero il re mida di Hollywood. E poi arrivano le nomination ai Golden Globe e probabilmente agli Oscar, vedremo. Una corsa ai record cui solo i primati di Titanic possono sperare di resistere. Quel che è certo è che Cameron si godrà il successo, ma non aspetterà altri dodici anni. Il regista canadese ha già promesso che in caso di trionfo - e trionfo è stato - di Avatar, avrebbe pensato ad un seguito. Per recuperare il tempo perduto, Cameron porterà sullo schermo, con le stesse tecniche di Avatar, la trilogia di Battle Angel, una serie di manga giapponesi che raccontano la storia di una ragazza cyborg priva di memoria.
Non ci resta che aspettare, ma l’attesa non dovrebbe essere, questa volta, tanto lunga.


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