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JULIETA

Pubblicato il 28 maggio 2016 da Anton Giulio Onofri


JULIETA

Fatalità, Tra poco, Silenzio: questi i tre racconti di Alice Munro contenuti nella sua raccolta "In fuga" (pubblicata in Italia da Einaudi), che in La pelle che abito Marisa Paredes, nel ruolo della carceriera di Vicente/Vera gli/le passava su un vassoio insieme alla colazione: già due film fa Pedro Almodóvar ci faceva sapere che il libro della scrittrice canadese premio Nobel gli stava ronzando nella capoccia... Su venti lungometraggi da lui realizzati in trentasei anni, soltanto tre sono tratti da fonti letterarie preesistenti: Carne tremula (1997), La pelle che abito (2011), e quest’ultimo Julieta, presentato a Cannes un paio di settimane fa. Julieta è, nel trittico letterario della Munro, Juliet, una donna travolta da diversi e mai risolti sensi di colpa, abbandonata da un giorno all’altro da sua figlia, che decide senza preavviso di sparire dalla sua vita.

Avvertendo la necessità - forse - di compiere un ulteriore passo verso una maturità e uno spessore di temi e contenuti inconsueti, o comunque mai affrontati con tanta "serietà", Almodóvar ha preferito riservarsi l’estrosa libertà di rielaborare a modo suo le tre storie di Juliet, preoccupandosi di imprimere al suo cinema un tocco più asciutto e attonito, distante da ogni eccesso ed eccentricità che ne hanno garantito, pur se a fasi alterne, la fortuna costante dagli anni ’80 del secolo scorso ad oggi. I due colori manifesto e distintivi del suo marchio di fabbrica, il rosso vivo e il turchese, solitamente emulsionati tra il calore mediterraneo del giallo e la densità di un nero che è l’anima della Spagna più maledetta e "secentesca", sono stavolta dilavati e sovraesposti in una luce diafana e algida, che li scorpora l’uno dall’altro e li spegne, cospargendoli di una patina di dolore tanto denso da condensarvisi sopra come una tenue rugiada. Va da sé che l’intera gamma cromatica delle tonalità dei sentimenti illustrati sullo schermo ne risente in termini di raggelata sobrietà: il "mélo" fa, sì, capolino ogni tanto (quel cervo sirkiano nella neve - che nella Munro è un lupo argentato - è apparizione fatata di stupefacente struggenza, e sempre Sirk ricordano certi primi piani ripresi leggermente dall’alto che al cinema non si vedono più, ma anche lontani anni luce dalla piattezza dei teleobiettivi della tv), ma non c’è più il melodramma, in quasi tutta la precedente filmografia di Almodóvar rimaneggiato e riorchestrato con il talento e l’arte di un funambolico giocoliere, bensì il DRAMMA, anzi la TRAGEDIA (Julieta studia e insegna Lettere Classiche, e legge La Tragedia Greca di Albin Lesky), dove a far scempio degli umani e a ridurli a fantasmatiche larve impotenti sono il Fato, la Colpa (quella dei padri, che ricade sui figli), il Lutto...

Alza il tiro, insomma, l’amato Pedro, che resta tuttavia sempre riconoscibilissimo col suo abituale disseminare lungo il film dettagli e informazioni sui suoi gusti e sulle sue simpatie del momento in fatto di arte, arredamento, letteratura, cinema, utilizzando oggetti da anni in suo possesso, come il poster della mostra di Lucian Freud che ci fissa fuori fuoco, il cestino della carta straccia, oggetti che, lui sapeva, sarebbero prima o poi finiti in un suo film, e che qui diventano addirittura simulacri essenziali, indispensabili, del mistero stesso di Eros e Thanatos, come la statuetta bronzea dell’uomo nudo a cosce divaricate e con il membro mozzato. Duettando con la cauta e discreta colonna musicale di Alberto Iglesias, tra il Bernard Herrmann di Vertigo e il Miles Davis di Ascensore per il patibolo, le immagini di Julieta ci inondano della luce di una Spagna tutt’altro che colorata e solare, anzi sospesa nell’eterna controra di un limbo dove si incontrano le Elettre, le Antigoni, le Medee, le Fedre di ogni epoca della storia dell’umanità, in cerca di un bacio, di un abbraccio, di una carezza, che possano compensare il peso di dolore che l’esser nate le ha condannate a sopportare per l’eternità. Un film di monumentale, distante, ieratica, assoluta bellezza.


(Julieta); Regia: Pedro Almodóvar; sceneggiatura: Pedro Almodóvar, da alcuni racconti di Alice Munro fotografia: Jean Claude Larrieu; montaggio: José Salcedo; musica: Alberto Iglesias; interpreti: Emma Suárez, Adriana Ugarte, Daniel Grao, Inma Cuesta, Dario Grandinetti, Michelle Jenner, Rossy de Palma; produzione: Agustín Almodóvar, Esther García; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Spagna, 2016; durata: 98 minuti


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