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Jurassic story: ventidue anni nel Jurassic Park

Pubblicato il 12 giugno 2015 da Stefano Colagiovanni


Jurassic story: ventidue anni nel Jurassic Park

Era il 1993 quando un incontentabile Steven Spielberg decise di prendere per mano gli appassionati di cinema di tutto il mondo e guidarli oltre le soglie del parco dei divertimenti più stupefacente di tutti i tempi. Benvenuti nel Jurassic Park, dove la storia e la scienza si incontrano per fondere passato, presente e futuro in un solo colpo. Come se nessuno avesse mai visto prima un dinosauro sul piccolo o grande schermo, come se i lucertoloni che popolavano la Terra milioni di anni fa non fossero mai apparsi sulle pagine dei libri di storia, come se nessuno scienziato ne avesse mai studiato nascita, evoluzione ed estinzione, il grande merito di Spielberg non fu quello di ricordarci dell’esistenza dei dinosauri, ma quello di portarli sul grande schermo da protagonisti, anche un po’ incurante di quanto avrebbe cambiato l’immaginario cinematografico popolare di lì in avanti: affascinato dal visionario romanzo omonimo del compianto Michael Crichton, Spielberg decise che, grazie ai mezzi in evoluzione della macchina cinematografica, avrebbe amplificato la portata dell’intuizione dello scritture statunitense, realizzando un’esperienza visiva ed emotiva senza precedenti. Ma per comprendere appieno la grandezza di un lavoro così complesso, bisogna seguire le orme dei giganti dell’ingegneria visiva del cinema degli ultimi venti anni.

Il desiderio di Spielberg (sembrerebbe una vera e propria ossessione) prese corpo nella trasformazione in immagini su pellicola del romanzo di Crichton. Ma come avrebbe potuto dar vita in maniera credibile a delle creature gigantesche, alcune munite di zanne e artigli affilati, squame e altri numerosissimi dettagli da non trascurare? Per l’occasione vennero spesi tempo, risorse e talento per la costruzione di modellini accuratissimi che avrebbero preso vita con la tecnica ormai consolidata dello stop-motion (o go-motion, in un’accezione più tecnologicamente avanzata); per primo Spielberg si rese conto che, per infondere maggior realismo alla pellicola e permettere agli attori in carne e ossa di calarsi con maggior trasporto emotivo e intimismo nelle sequenze chiave, si sarebbe dovuto osare di più e tale decisione permise al creatore di E.T. di lavorare con gli "animatroni", dei veri e propri automi semoventi, incredibilmente realistici, che avrebbero consentito una risoluzione grafica e dinamica maggiore dei più semplicistici modellini da muovere in stop-motion. Ma non era ancora abbastanza. L’evoluzione digitale, con le meraviglie che la computer grafica avrebbe consegnato ai posteri, stava muovendo i suoi primi, convincenti passi nel mondo del cinema. La possibilità di sfruttare gli infiniti strumenti di trasformazione che il digitale poteva offrire spinse Stan Winston, a capo del reparto effetti visivi, a convincere Spielberg a infondere la vita ai suoi "animatroni" grazie alla CGI. Il successo fu epocale: Jurassic Park impressionò il mondo intero, crescendo una generazione di sognatori che, senza rendersene conto, continuarono per anni ad alzare il naso nel seguire il movimento della macchina da presa fin su, lungo il collo del Brachiosauro, serrando i denti alla vista dei letali artigli dei Velociraptor o stritolando i braccioli delle poltrone, con l’ansia nel cuore, a ogni riverbero prodotto dai passi del Tirannosaurus-Rex.

Sono trascorsi ventidue anni da quel primo, adrenalinico tour nel parco delle meraviglie di Spielberg. Ventidue anni e ben tre sequel: Jurassic Park – Il mondo perduto (diretto da Spielberg nel 1997, seguito ideale, perchè riprende nuovamente gli eventi illustrati da Crichton nel suo omonimo secondo romanzo), Jurassic Park 3 (diretto da Joe Johnston nel 2001, che sostituisce Spielberg alla regia, “confinato” a mero produttore esecutivo) e Jurassic World, diretto da Colin Trevorrow, fresco di uscita nelle sale, che vede Spielberg ancora dietro le quinte nelle vesti di produttore. Come sono cambiati, quindi, i dinosauri del parco ideato nel film dal lungimirante professor Hammond (interpretato dal compianto Richard Attenborough)? Le principali innovazioni fanno riferimento all’evoluzione apparentemente senza limiti della computer grafica: la matrice che infuse la vita agli animatroni voluti da Spielberg ha permesso a Trevorrow di girare Jurassic World in 3D e in formato IMAX, la prima volta in assoluto per i bestioni giurassici, coadiuvato ancora dalla casa di produzione di effetti speciali che da sempre ha accompagnato i mastodontici dinosauri, la Industrial Light & Magic. E gli animatroni? Quasi del tutto accantonati, considerato che solo uno di loro compare in una corta sequenza del film, uno dei tanti riferimenti al primo episodio della saga (vediamo Chris Pratt e Bryce Dallas Howard carezzare un Brachiosauro morente in una sezione dal forte rimando emotivo. Ne deriva che, a discapito di una fruibilità maggiore nei movimenti e a una resa dei dettagli senza dubbio maggiormente accurata, i dinosauri in Jurassic World trasudano meno realismo, apparendo quasi privi di quella vitalità che tanto aveva impressionato gli amanti dei primi capitoli della saga; il massiccio utilizzo del digitale pare aver trasformato i dinosauri da predatori in carne, ossa e pixel, in puri ologrammi, delle raffigurazioni spettrali delle creature verosimili che erano un tempo. La resa visiva non ne risente affatto, più che altro si tratta di una sensazione palpabile, un vibrare dell’anima, un sussulto quasi impercettibile, come quelli che si hanno quando ci si accorge di star guardano qualcosa che non ci convince appieno. Un effetto non da poco conto, se lo si rapporta ai contenuti della pellicola, nella quale lo spettatore viene calato in una realtà in cui i dinosauri non rappresentano più una novità, una meraviglia fin’ora inimmaginabile, ma vengono trattati come un divertimento mondano, al quale la popolazione (soprattutto bambini) sembra abbastanza abituata: così, per andare incontro alle aspettative di un pubblico sempre più esigente e desideroso di ammirare nuovi mostri da intrattenimento, c’è l’impellente bisogno di creare ex novo altri dinosauri, magari geneticamente modificati, stuzzicando l’immaginario e la vista degli spettatori che sanno già tutto e hanno visto di tutto. Quelli che ci sono già non costituiscono quasi più un’attrazione, come negli anni addietro, e rischiano addirittura di essere ammaestrati oppure di finire nelle mani di spietati agenti governativi, desiderosi di trasformarli in soldati letali.

Si è persa un po’ di magia, si potrebbe azzardare e anche i dinosauri, creature realmente esistite, ma che continuano a popolare le nostre fantasie di pari passo con i draghi o altre mostruosità mitologiche, sembrano avviliti e svaniti nel tumultuoso oceano della computer grafica in continua evoluzione che, pian piano, costringe all’estinzione quegli ultimi frammenti di realismo che gran parte dei blockbuster, al giorno d’oggi, ripudiano con sconcertante veemenza. A testimonianza che, non sempre, l’evoluzione va intesa come sinonimo di miglioramento.


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