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Katyn

Pubblicato il 15 febbraio 2009 da Simone Isola


Katyn

Nel secolo scorso il popolo polacco è stato martoriato da guerre fredde ed altre combattute. Spesso non volute dal momento che la nazione è stata solo lo scacchiere su cui altri giocatori muovevano le loro pedine. Ma a perire erano soprattutto i polacchi e a dissolversi era il loro senso di unità nazionale. Storicamente schiacciata tra Russia e Germania, la Polonia è stata non a caso la prima preda dell’espansionistico sovietico e nazista, che nacque proprio con l’accordo Ribbentrop-Molotov (23 agosto 1939) per la spartizione del suo territorio. Alla fine di questa infame operazione bellica mancarono all’appello oltre 15000 soldati polacchi, tra cui 8400 ufficiali, il fior fiore della futura classe dirigente. Nel 1943 i tedeschi scoprirono nella foresta di Katyn una serie di fosse comuni con le migliaia di corpi di quei soldati polacchi dispersi. La propaganda, si sa, vale quasi quanto una vittoria sul campo: i tedeschi accusarono i russi del massacro, evidentemente perpetrato dalla polizia politica di Stalin. Impegnati nello sforzo comune contro il nemico nazista, le altre potenze fecero finta di nulla. Stalin, dal canto suo, aveva detto che quei soldati erano fuggiti in Manciuria… Alla fine della guerra, per ragioni di Stato, il nuovo ordine mondiale decise di ignorare la verità storica. Per anni, anche in Occidente, il massacro di Katyn venne ritenuto opera dei nazisti. Il popolo polacco, cosciente della vera identità degli assassini, venne indotto dalla violenta propaganda a rimuovere l’episodio, e ad auto-convincersi della colpevolezza tedesca. Ebbene, tra gli ufficiali morti a Katyn c’era Jahub Wajda, il padre di uno degli autori più importanti del cinema polacco. La sua famiglia ha creduto per anni che l’uomo fosse ancora vivo, perché in realtà nella lista di Katyn il nome riportato era quello di Karol Wajda. Allo stesso modo molte famiglie furono separate per sempre, vivendo per anni l’incertezza di una possibile riconciliazione, costrette dalla propaganda a negare la vera identità degli assassini dei propri cari. Solo alla fine degli anni Ottanta arrivò una timida ammissione da parte russa delle proprie responsabilità su Katyn; da allora la società polacca ha lentamente metabolizzando la portata storica di questo tragico avvenimento, che ancora oggi rappresenta un’ombra lunga con cui fare inevitabilmente i conti.

Wajda decide di accostarsi al tema non per evidenziare una verità storicamente accertata, ma per descrivere come la macchina del massacro e la propaganda abbiano colpito i singoli individui. Il principale merito del film è di aver centrato la narrazione su alcune esemplari “microstorie”, tracciando un mosaico di vicende e personaggi che trova il suo climax in alcune immagini di grande forza iconica e concettuale. Il film è un coro di dolore fatto di piccole voci, piccole sofferenze individuali che ci emozionano molto più degli asettici fatti storici. I personaggi compaiono e scompaiono, descritti con pennellate sottili e penetranti. Sono le donne ad avere maggior spazio, quelle donne fedeli che hanno aspettato per tutta la vita di aprire la porta di casa per rivedere l’uomo a lungo atteso. Citiamo lo splendido episodio della “moderna Antigone” Agnieszka, che sacrifica i suoi capelli per pagare la lapide per la tomba del fratello scomparso a Katyn; la data di morte incisa sulla pietra è 1940, indicando esplicitamente nei soldati russi i veri assassini. Il prete però si rifiuta di accoglierla in chiesa, per paure di possibili ritorsioni; la giovane donna si ritrova a girare per la città con la lapide su un piccolo carro. E’ un’immagine fortissima, il segno indelebile di una terra che occultando la verità non rende onore e degna sepoltura a chi ha perso la vita per lei. E’ una pietra molto più grande e pericolosa di quello che sembra, e l’efficiente Servizio Segreto la fa a pezzi mentre Agnieszka viene avviata alle celle di tortura. Wajda cerca immagini pregnanti; la ricerca non sempre va a segno, ma in alcuni episodi il film è davvero un’esemplare lezione di Storia. Invece dei nomi sui libri ci sono vicende intime, quasi private, eppure così rivelatrici del dolore provocato dalla guerra e dalla separazione dai propri cari. In fondo tutto ciò che c’è da capire è scritto nel diario del capitano polacco Andrzej, vera bussola del film, documento che apre e chiude il racconto come testamento spirituale di un massacro perpetuato anche con la rimozione del suo doloroso ricordo.
L’autore non cede alla tentazione della vendetta e della resa dei conti, la sua narrazione non è spinta dall’odio ma da un forte senso di pietas per tutti i personaggi coinvolti, sia russi che polacchi. Katyn si rivolge alla nuova generazione polacca nata dopo il Muro, impegnata nella tecnologia, nelle nuove forme di comunicazione. Certo, alla fine l’autore deve mostrare l’orrore della ferrea organizzazione del crimine, quel massacro ritmico, che assume quasi le sembianze di un rito demoniaco. E mentre la fossa lentamente si ricopre tra gli alberi e il verde del bosco, la menzogna perpetrata nei decenni acquista un valore ancora più infamante. Il messaggio del film è quello di non permettere mai che la verità e la giustizia vengano calpestate, che a una madre, a una moglie, venga negato per tutta la vita di conoscere il destino dei propri cari. Si dimenticano oggi nomi e date, momenti di Storia fondamentali. Il sogno di Wajda è che un giovane d’oggi, dopo aver visto il suo film, possa finalmente dire che Katyn è qualcosa di più di una semplice cittadina non lontana da Smolensk.


CAST & CREDITS

(Katyn); Regia: Andrzej Wajda; sceneggiatura: Andrzej Mularczyk, Andrzej Wajda; fotografia: Pawel Edelman; montaggio: Milenia Fiedler, Rafal Listopad; musica: Krzysztof Penderecki; interpreti: Maja Ostaszewska, Artur Zmijewski, Andrzej Chyra, Danuta Stenka, Jan Englert; produzione: Akson Studio, Polski Instytut Sztuki Filmowej. distribuzione: Movimento Film; origine: Polonia, 2007; durata: 118’


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