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Kim Ki-duk - Un ricordo

Pubblicato il 12 dicembre 2020 da Francesca Pistocchi


Kim Ki-duk - Un ricordo

Odio, desiderio, violenza e frustrazione sono strane sfaccettature dell’animo umano il cui volto, spesso e volentieri, viene celato dall’odio, dal desiderio, dalla violenza e dalla frustrazione di chi si nasconde dietro alla cinepresa. Di norma, il mezzo cinematografico tende a dissimulare i fantasmi che invece dovremmo vedere, occultando i lineamenti di una verità talvolta liquidata come scomoda o agghiacciante: ebbene, non è certo il caso di Kim Ki-duk, figlio del mondo primitivo e circolare che nei suoi film ricorre con tanta ridondanza.

Kim Ki-Duk nasce nel 1960 a Bonghwa, in Corea del Sud, da una famiglia in equilibrio perennemente precario a causa dell’instabilità economica e sociale in cui si ritrova costretta. La sua gioventù si dipana fra l’agricoltura, la fabbrica in cui lavora come operaio, la marina e, infine, una crisi mistica che lo avvicinerà alla predicazione: giunti a questo punto forse cominciamo a intravedere il regista le cui sconvolgenti parabole, in un lontano futuro, sbarcheranno di frequente sulla laguna veneziana. Ma andiamo con ordine e torniamo al 1990, anno in cui abbandona il suo vecchio universo per abbracciare l’Europa, e in particolare i colori di Parigi: fra le tinte sbiadite della capitale, questo visionario ancora incompreso s’incammina verso la strada della pittura – strada che, purtroppo per lui ma fortunatamente per noi, non frutterà il successo sperato.

Il ritratto si fa sempre più chiaro, le sfumature più cangianti, la via da percorrere sembra ora essere quella della scrittura, senza però rinunciare alle apparizioni in chiaroscuro che contraddistinguono il suo immaginario: con A painter and a criminal condemned to death (1993, mai girato), a 33 anni indossa finalmente le vesti che gli si addicono, ovvero quelle dello sceneggiatore. Ma l’abito che più di tutti ne avvolge la fisionomia è quello del regista, quasi riunisse fra le sue pieghe ogni scelta rivelatasi vana: in Coccodrillo (1996), agghiacciante pellicola d’esordio a low budget, già si rapprendono quelle costellazioni inaccettabili ed estremamente carnali che diventeranno, nel corso del tempo, un vero e proprio marchio di fabbrica. Il film narra la breve epopea di un vampiro senza nome, appostato sotto un ponte in attesa dei suicidi a cui ruberà gli ultimi averi. Con Birdcage Inn (1998) e L’Isola (2000), il nostro pittore dell’obiettivo traccia i contorni del limbo nel quale si divertirà a rinchiudere i suoi personaggi (molti dei quali, non a caso, privi di un nome e di un’identità specifici): la vita si svolge sempre in zone franche, all’interno delle quali l’inammissibile riesce ad acquistare un corpo, un viso, una consistenza talvolta disgustosamente familiari. Kim Ki-duk documenta nel senso più cinematografico del termine i rapporti primitivi e disturbanti creatisi fra gli attori di questa commedia a cui mai vorremmo assistere, coinvolgendo lo spettatore in un brutale gioco della verità.

Il primo viaggio nelle sale italiane si svolge, tuttavia, all’interno di una dimensione più metafisica e rotonda: con Primavera, autunno, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003), il regista riprende la propria ascesi creando un’ambiziosa sinfonia stagionale la cui protagonista è l’esistenza stessa. La medesima, imperturbabile e impietosa ciclicità si ritrova nel lungometraggio con cui Kim, nel 2004, mette in scena il bizzarro anti-Bildungsroman La Samaritana , aggiudicandosi l’Orso d’argento a Berlino. Ma non basta, perché a pochi mesi di distanza le vertiginose evoluzioni umane di questa cinepresa senza filtri attraccano a Venezia: in Ferro 3 ritorna il volto del Coccodrillo, i protagonisti danzano come parassiti all’interno di luoghi che non gli appartengono, fino a dissolversi nel nulla da cui provengono. Eppure, gli spettri incredibilmente materici di Kim Ki-duk non scompaiono mai del tutto, la loro presenza si fa via via più ingombrante e pestifera a mano a mano che la quotidianità abituale si macchia di sfumature tanto inaspettate quanto perturbanti. Dopo aver espresso e cercato di elaborare in un documentario del 2011, Arirang , una grande crisi artistica e personale, l’anno successivo, dà alla luce, in un grande anagramma di sadismo, vendetta e redenzione, il suo prodotto più magniloquente: con Pietà , il regista coreano intesse il suo abito forse più sfarzoso, mostrando fino a che punto perversione ed espiazione possano somigliarsi e, se necessario, sovrapporsi – fino a dissolversi in un vuoto spaventoso ma liberatorio. Seguono, infine, alcuni altri titoli forse non della stessa bellezza: il thriller allucinato One on One (2014), Il prigioniero coreano (2016, presentato alla Mostra di Venezia), e infine alla Berlinale 2018 Human, Space, Time and Human , il suo ultimo film, il 23esimo.

Kim Ki-duk è un vero illusionista, perché rende visibile ciò che altrimenti sarebbe inaccessibile e restituisce ai demoni dell’umanità il proprio volto, le proprie sembianze angeliche e degradate, senza mai privarle della loro sofferta tridimensionalità. Sacro e profano sono in fondo due facce della stessa medaglia, o meglio, due fasi dello stesso percorso rotatorio. Forse non è il caso di dare al regista l’ultimo addio: forse, da bravo illusionista, egli avrà sicuramente trovato il modo di svanire dalla sua cella senza mai congedarsi definitivamente.

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