Knight of Cups

Nel 1789, l’anno della Rivoluzione Francese, appena reduce dall’Italia Johann Wolgang Goethe scriveva un breve ma densissimo saggio intitolato Semplice imitazione della natura, maniera, stile.
Questo saggio ci è tornato in mente oggi vedendo Knight of Cups da tradursi il Cavaliere di Coppe. Perché giunti al terzo film di Terrence Malick nell’arco degli ultimi quattro anni – ne aveva girati altri quattro ma nell’arco di trentadue anni e nessuno dal 1978 al 1998 – la sensazione di trovarsi di fronte a un autore che ha raggiunto un alto grado di manierismo è apparsa davvero incoercibile. Proviamo a dire in che cosa consiste la maniera di Malick. In primo luogo nella programmatica espunzione di alcune componenti tradizionalmente presenti nella tessitura di un film che sono la sceneggiatura e il dialogo; in secondo luogo nell’uso sistematico della voice over e più spesso della voice off; in terzo luogo nell’assoluta preminenza della macchina da presa che gira per chilometri e chilometri raggiungendo ogni possibile angolo visuale, ogni possibile prospettiva e non arretrando nemmeno di fronte ai più complessi e virtuosistici movimenti; in quarto luogo nella centralità del montaggio: quel che vale per ogni film – è in sala di montaggio che esso vede la luce definitiva – vale oltre ogni misura per Malick. Ed è proprio su quest’ultimo punto, sulla (presunta) logica del montaggio che i punti di vista di autore, spettatori e critici, probabilmente, divergono: perché Malick struttura questo suo ultimo film in capitoli, dando a ciascuno di loro, il nome di una figura dei tarocchi e lo spettatore è portato costantemente a domandarsi se tale struttura risponde ad un tradizionale principio sintagmatico – la singola sequenza deve “per forza” precedere la successiva? – o se obbedisca ad una logica meramente giustappositiva (la proiezione, per un mero errore materiale, a bobine invertite di The Tree of Life a Bologna qualche anno fa, corretta solo dopo una settimana, è ancora nella memoria di tutti). Al termine di Knight of Cups la sensazione che i capitoli non siano da leggersi in sequenza si fa molto forte - e questo malgrado la voce off non faccia altro che sollecitare il protagonista Rick, interpretato da un Christian Bale, semimuto, in splendida forma, a cambiare, a iniziare un percorso di trasformazione, ad osare, avere coraggio, forza. Coraggio, forza di fare cosa? Bella domanda: di chiudere i conti con il padre? Di fondare una (nuova) famiglia? Di trovare una (nuova) armonia con la natura abbandonando il mondo fatuo e superficiale che in alcuni passaggi sembra coincidere con il mondo di Hollywood, con i suoi parties, le case di design, le piscine etc.? Forse.
Al di là degli elementi sopra segnalati, ciò che meglio descrive il manierismo del tardo Malick sono le parole, le frasi, le sentenze filosofico-religiose, in fin dei conti interscambiabili, presenti nei suoi ultimi film, le quali denotano una innegabile deriva new age del nostro regista, anche se in alcuni passaggi di Knight of Cups Malick sembrerebbe riavvicinarsi a modalità religiose più tradizionali con una non infrequente invocazione di Dio, God. All’interno di questi lacerti, neanche troppo laconici, di sceneggiatura che accompagnano i rutilanti movimenti della macchina da presa, i continui stacchi di montaggio (che continuano, com’è ovvio, a suscitare grandissima ammirazione) colpisce, sul piano delle modalità linguistiche, l’uso insistito di ellissi, la prevalenza di sostantivi senza verbi a fornire una investitura auratica ancor maggiore a quanto le voci vanno dicendo: La Forza. Il Coraggio. La Vita. L’Amore. Gli attori e le attrici, pur quasi del tutto privati di uno degli elementi-chiave della loro performance, almeno dalla fine degli anni ’20 in avanti: ossia la voce, sono tutti bellissimi e bravissimi ad abbandonarsi nelle mani del regista.
(Knight of Cups); Regia, sceneggiatura: Terrence Malick; fotografia: Emmanuel Lubezki; montaggio: Geoffey Richman, Keith Fraase, AJ Edwards; interpreti: Christian Bale (Rick); Cate Blanchett (Nancy); Natalie Portman (Elizabeth); produzione: Tugg-Brace Cove-Wayponit- New York: origine: USA, 2015; durata: 118’.
