L’ARCO

Volendo effettuare una valutazione complessiva dell’opera di Kim Ki-duk - almeno delle pellicole viste qui da noi in sala, o nei vari festival che ne premiano la qualità - risulta abbastanza evidente come questo suo ultimo lavoro rappresenti in qualche modo una rivisitazione aggiornata di molte delle tematiche portanti della sua filmografia; prima, ovvia “parentela” che L’arco evidenzia con i suoi migliori lungometraggi è l’ambientazione, o meglio un setting che si rivela immediatamente come luogo isolato e deputato alla vicenda ed insieme stilizzazione simbolica coerente con la poetica del cineasta: la chiatta/isola/prigione sospesa tra le acque, già adoperata in L’isola o in Primavera, estate, autunno, inverno...e di nuovo primavera, diventa adesso una scalcinata ma suggestiva barca immobile e sperduta in mezzo al mare, su cui il vecchio protagonista porta la gente a pescare e soprattutto tiene segregata la sua promessa sposa, un’adolescente che ha trovato dieci anni prima e che ha cresciuto attraverso il sentimento ambiguo dell’amore paterno diviso con quello sensuale - altra costante, anche se maggiormente sotterranea, del cinema di Kim Ki-duk. Il luogo in cui si svolge l’intera vicenda del film è dunque ancora una volta un luogo “altro”, una stilizzazione simbolica della psicologia e della rarefazione dei personaggi: il cineasta coreano sembra, qui più che in altre opere, voler partire dall’involucro esterno per inserirvi poi la narrazione (melo)drammatica che ha scelto; la coerenza tra il contesto scenografico e la materia trattata sembra essergli maggiormente riuscito in altri lavori, anche quando la cifra stilistica non presupponeva la radicalità visiva dei film prima citati - si pensi anche agli interni/guscio come la casa del bellissimo Ferro 3, oppure la camera d’albergo di Bad Guy. L’arco soffre infatti di una sorta di “scarto poetico” tra la l’importanza della messa in scena e l’involucro di una storiella semplice semplice, che troppo spesso scivola sotto i limiti della banalità. Sotto il punto di vista squisitamente drammaturgico poi, il film si guadagna l’attenzione dello spettatore fino al climax che risolve il triangolo amoroso venuto a crearsi, lasciando inopinatamente spazio nell’ultima parte dell’opera ad una lungaggine densa di rimandi e simbolismi abbastanza scontati e ripetitivi. Oltre alla semplice ambientazione, ne L’arco vi sono poi degli stilemi narrativi già presenti “in nuce” nel precedente lavoro dell’autore, ed adoperati stavolta attraverso la teoria del ribaltamento; soprattutto con Primavera, estate... il rimando è palese: il rapporto a due tra la persona più anziana e saggia ed il giovane discepolo inesperto e bisognoso di imparare, che si delineava nel suo film forse più riuscito, si capovolge adesso nella figura di un vecchio solo, rancoroso e debole che soggioga e tenta di concupire - in maniera comunque castissima - la sua giovanissima pupilla. In questo caso la tensione verso il racconto morale e paradigmatico dell’altra opera lascia spazio ad una narrazione più smaccatamente “povera”, indirizzata appunto verso l’abuso della cifra più semplicemente melodrammatica che non interessa più di tanto. Siamo dunque di fronte, parlando dell’opera di Kim Ki-duk, ad un’altra pellicola non pienamente riuscita, dopo l’eterogeneità de La samaritana? Il vistoso scarto presente tra la bellezza della confezione e la retorica della storia lascerebbe intendere questo: un giudizio fermamente negativo su L’arco va però sospeso in virtù degli innegabili pregi che comunque questa pellicola possiede, anche se risiedono tutti nella messa in scena: Kim Ki-duk si rivela infatti ancora una volta regista di sensibilità sopraffina nel giocare con la semplicità e la profondità del cinema che egli stesso ha creato: qui ancora una volta l’uso del silenzio come filo conduttore, sia a livello stilistico che narrativo, si rivela coinvolgente e prezioso, veicolo per infondere nel film la carica di sensualità più o meno inespressa ma sempre presente e pulsante. A nostro avviso, quando in piccoli capolavori come ad esempio L’isola o Ferro 3 questa “poetica del non detto” veniva usata in chiave maggiormente leggera, o addirittura comico/grottesca nei casi più estremi, possedeva una capacità di presa sul pubblico nettamente più forte. Forse a nuocere all’ultimo cinema di Kim Ki-duk potrebbe essere proprio questo scivolamento verso un tono melodrammatico, quando non addirittura patetico.
Novembre 2005
Regia, soggetto e sceneggiatura: Kim Ki-duk; fotografia: Jang Seong-back; montaggio: Kim Ki-duk; interpreti: Han Yeo-reum, Seo Si-jeok, Jeon Gook-hwan, Jeon Seong-hwang; produzione: Kang Yong-gyu, Kim Ki-duk; origine: Corea del Sud; distribuzione: Mikado; durata: 90’.
