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L’ascensione del Galiber

Pubblicato il 20 febbraio 2004 da Alessandro Borri


L'ascensione del Galiber

Per ricordare Marco Pantani, morto una qualsiasi sera di San Valentino del 2004, in un qualsiasi residence riminese, ripubblichiamo un pezzo sulla sua vittoria più bella, ormai cinque anni e mezzo fa. Ciao, pirata.

17 luglio 1998 - Pantani sul Galibier

La tappa del Galibier. Bisogna averla vista. O, anche, basta immaginarla, come si immaginavano, mitizzandoli, i trionfi di Bartali e Coppi. Se il ciclismo - lo sport e la sua visione televisiva - è la sublimazione cinetica, quasi psichedelica, del movimento, la trasmissione della tappa che arrivava a Les Deux Alpes è stata il canto di un’emozione che rasentava l’invisibile. L’emozione è Pantani, naturalmente, come da tempo sostiene Gianni Mura. Il suo scatto è un colpo al cuore, una stilettata a tradimento che dal moto circolare dei pedali si allarga al mondo e allunga verso la vetta ad abbreviare l’agonia. Ma la sua impresa è un’epopea virtuale. Il pirata vola come un fantasma tra la pioggia e le immagini disturbate. Dietro la tempesta magnetica si percepiscono a tratti colori, luci e forme mobili, indistinte. Il segnale lotta con le montagne e le intemperie. Il regista deve continuamente ricorrere ai replay per coprire l’invedibile, ed è un continuo ritorno del già visto, di tempo e spazio che si aggrovigliano su se stessi. Una tappa come avrebbero potuto concepirla Antonioni o Lynch: strade avvolte in una doppia nebbia, atmosferica e catodica, strade perdute e ritrovate continuamente dove un uomo da solo, con la bandana e gli incongrui occhiali da sole, sta vincendo tutto e tutti. È epica, sì, ma un’epica definitivamente, classicamente postmoderna. Fisicità e pensiero, occlusioni percettive e disturbi della memoria. Pantani è il pale rider di questa cavalcata verso il nulla, avvolto da una nebbia che però alla fine, sulle Deux Alpes, si tinge miracolosamente di giallo.

[febbraio 2004]


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