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Le cose che verranno - Perché no

Pubblicato il 20 aprile 2017 da Matteo Galli
VOTO:


Le cose che verranno - Perché no

Da A come Adorno fino a Z come Žižek: nel quinto film di Mia Hansen Løve è il continuo, incessante name dropping a farla da padrone. D’altra parte la pellicola inizia con un prologo che è subito una dichiarazione d’intenti: una famiglia, lui, lei e due figli ancora piccoli compiono un pellegrinaggio alla tomba di Chateaubriand a Saint Malo. D’accordo che Nathalie, la protagonista, interpretata da Isabelle Huppert, fa l’insegnante di filosofia di un liceo parigino, d’accordo che anche il marito, Heinz di nome (André Marcon) insegna filosofia all’università, d’accordo che il miglior allievo della prof., Fabien (Roman Kolinka), adesso dottorando in crisi, è pure lui filosofo, ma questo ricorso continuo a nomi e citazioni che intenderebbe dare credibilità ai personaggi non riesce neanche lontanamente a nobilitare un plot poco interessante, e personaggi che si fa fatica a immaginare possano interessare a qualcuno. Come l’Olivella di un vecchio e celebre Carosello, Nathalie potrebbe, all’inizio del film, canticchiare “Tutto bene mi va!”: insegnante volitiva e amata, moglie volitiva e amata, madre volitiva e amata, figlia unica, volitiva e tallonata da una madre depressa. Poi, dopo un po’, tutte le cose cominciano a scricchiolare: il marito ha un’altra e la lascia svuotandole buona parte della biblioteca (ahiahi!), la madre dà sempre più di matto e dunque va messa in una casa di riposo, dove di lì a poco morirà, qualcosa s’agita anche nei pressi della scuola (manifestazioni, picchetti, scioperi) incontrando lo scetticismo della prof, pur con trascorsi comunisti. Come se non bastasse, la piccola casa editrice con cui la prof collaborava le fa capire che gli introiti sono piuttosto modesti e dunque è venuto il momento di non ristampare più il suo manuale – e anche la collana di nicchia che lei dirigeva ha i giorni contati. Benvenuta, cara Nathalie, nel mondo d’oggi. Ma la prof non si perde d’animo, affronta tutto con grande dignità (in fondo la vera questione post-divorzio sembrerebbe essere: ma l’edizione del Mondo come volontà e rappresentazione era di lui o di lei?), ogni tanto, è vero, fa un piantino, ma tiene sempre la testa alta, il mento in fuori, alla peggio c’è sempre un libro da prendere in mano che sia Günter Anders, Vladimir Jankélévitch o Emmanuel Lévinas (il film con più in inquadrature di copertine e costole di libri che si ricordi). In mezzo a tutto questo, le varie film commission che hanno finanziato il film – che è una coproduzione franco-tedesca – hanno “imposto” alcuni “mirabili” scorci paesaggistici, dalla Bretagna alle Prealpi del Vercors, la prima con la casa della famiglia (di lui) da dismettere causa divorzio, la seconda sede di una piccola comunità alternativa - con il dottorando di cui sopra a coordinarla - che ha fatto tornare in mente il “pecorino zen” di Victor Cavallo in Verso sera di Francesca Archibugi (correva l’anno 1990, e già allora quella comunità, quella comune era parsa datata). Qui il film tocca forse il suo punto più basso in termini di sceneggiatura: non solo le persone lì riunite non hanno da dire alla nostra povera prof, ma quando parlano fra sé un po’ in francese, un po’ in tedesco (coproduzione!), un po’ in inglese (ma quanto siamo europei, che meraviglia!) vaneggiano di abolizione del diritto di autore, di velleità rivoluzionarie o addirittura terroriste (fra i molti libri del cascinale, udite udite persino Unabomber) letteralmente a vuoto. In tutto questo ovviamente si sente Schubert, si sente Woody Guthrie (e ci spiegano anche chi era, per chi si fosse messo alla visione e all’ascolto soltanto adesso), proseguendo anche sul piano musicale questo fastidiosissimo corso accelerato di cultura borghese che, come se non bastasse, vorrebbe anche avere l’ambizione di indurre chi guarda a istituire continui parallelismi fra il singolo filosofo citato alla bisogna e i singoli personaggi. Stai attento spettatore: ti piazzo una bella citazione tratta dalla Nouvelle Héloise di Rousseau sulla passione e tu, da bravo, devi pensare a Nathalie, in fondo incapace di passione; ti schiaffo “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”, il motto kantiano del professor Heinz, che però, lo scopriremo pochi minuti dopo, chissà da quanto tradisce la moglie, alla faccia di Kant, e così via fino a un pistolotto pascaliano al funerale della madre. Poi ci sarebbe anche da parlare del gatto Pandora, ma lasciamo perdere.
Dopo l’altissimo profilo, estetico e politico del film di Rosi, presentato a Berlino tre ore prima, questo film pare non avere con il Concorso in particolare, ma verrebbe da dire con la Berlinale in genere davvero nulla a che vedere.


(L’avenir); Regia: Mia Hansen-Løve; sceneggiatura: Mia Hansen-Løve; fotografia: Denis Lenoir; montaggio: Marion Monnier; interpreti: Isabelle Huppert, Edith Scob, Roman Kolinka, André Marcon; produzione: CG Cinéma, ARTE France Cinéma; origine: Francia, 2016


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