X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



L’era del Post-War-Movie

Pubblicato il 12 agosto 2007 da Alessia Spagnoli


L'era del Post-War-Movie

Prendiamo per buone le parole introduttive di Marco Müller alla presentazione del cartellone veneziano (il tono dubitativo non deriva certo da scarsa fiducia nei confronti del direttore, ma poiché assumiamo qui per verificata, a scatola chiusa, una verità non ancora saggiata con mano) per svolgere una riflessione sullo stato attuale delle cose del cinema, il che equivale sempre, e tuttavia mai come in questo caso, ad interrogarsi contemporaneamente sulle cose del mondo: il minimo comun denominatore delle opere selezionate per la prossima Mostra del Cinema è la guerra, egli afferma.
Di fronte al desolante spettacolo offerto dalla televisione, che vive ormai da qualche anno la sua fase “reality”, la stessa che la allontana, paradossalmente, proprio dal dato concreto e contingente, tocca dunque ancora e sempre al cinema farsi interprete allarmato delle storture più profonde della nostra epoca malata. Già nei soli Stati Uniti – evidentemente c’è molto su cui arrovellarsi laggiù – tra le poderose testate dell’ariete Moore dirette all’amministrazione Bush e le opere che svolgono la loro critica in maniera un poco più raffinata, come quelle di Spike Lee, c’è spazio per un bel po’ di materiale audiovisivo da passare al setaccio, ai fini della nostra indagine. Scorrendo la lista dei film più amati dalla nostra redazione nella stagione appena consegnata agli archivi, scopriamo già come molti di essi siano effettivamente legati a doppio filo a tematiche belliche e abbiano saputo dire più d’una parola veritiera sul mondo d’oggi, anche quando rivolgevano lo sguardo al passato o, per converso, seguivano ipotesi distopiche: l’America contemporanea di Scorsese, in un’opera solo “mascherata” da film di genere, o quella della Seconda Guerra Mondiale eastwoodiana, in cui, all’opposto, è la metafora della guerra a divenir letterale, mentre i contenuti riverberano sinistri parallelismi con la situazione attuale. Idem per l’Israele di Spielberg dello scorso anno, che dopo la guerra dei mondi d’ambientazione terrestre torna a puntare l’obiettivo su desolazioni tristemente concrete che non consentono vie di fuga fantasy, in cui presente e passato di nuovo si sovrappongono senza soluzione di continuità. E stiamo parlando solo della punta dell’iceberg, delle opere di quegli autori più illustri e rappresentativi del panorama americano. Ma il resto del continente non se ne sta certo in disparte a guardare: lo dimostrano le tre fondamentali opere provenienti dal Messico, impostesi all’attenzione mondiale in quest’ultimo anno.
Per molti di essi, come si vede bene, non si tratta neppure di veri e propri war-movies, intesi nell’accezione tradizionale del termine, poiché l’infinita guerra globale in cui ci troviamo invischiati si presenta in forme inedite anche per strategie conflittuali rispetto al passato. Con molte di queste opere sembra di essere già in un mondo postbellico: la guerra ha già avuto luogo, e sceneggiatori e autori osservano cosa rimane tutto attorno, quali squarci possibili rimangono ai sopravvissuti. Niente più scenari lontanamente apocalittici, ma mondi normali che tutti ben conosciamo (avveniva già nei fantahorror dell’inner space degli Anni Cinquanta, “replicato” proprio dallo Spielberg del remake wellsiano), come nel Babel di Iñárritu, in cui le complesse trame di morte e distruzione si dipanavano su quattro continenti differenti.
Si tratta di riflessioni congiunte su uno stato mentale che ormai ci appartiene, che è divenuto parte integrante delle nostre vite, penetrando a fondo nei nostri sogni (o meglio, incubi) e “sporcando” le fantasie dei bambini (Il Labirinto del Fauno: un’altra opera rivolta al passato, alla Spagna franchista stavolta, ma la morale di questa “fiaba” nerissima è moneta sonante oggi). La personale visione di Del Toro ha portato ad un’ulteriore traslazione di simbologie e manifestazioni, dunque: la guerra in salsa horror fantasy. Una volta sarebbe stato l’horror stesso a fornire corpi cangianti a tali inenarrabili paure, ma il genere si trova purtroppo impantanato in una terra di nessuno, legato mani e piedi ad inutili remake e sterili sequel (fa eccezione lo splendido Bug del maestro Friedkin, già visto a Cannes e Torino, opera che sa cavalcare la paura della guerra contemporanea nell’ennesimo horror magistrale vergato dall’autore de L’Esorcista).

Oramai non pare esservi più bisogno di affrontare il film di guerra ricorrendo al pesante armamentario dei codici di genere: si veda il caso di un’opera surreale, infinitamente deliziosa e poco vista come Breakfast on Pluto di Neil Jordan, in cui la deflagrazione di una bomba in un attentato terroristico replica in maniera inquietante il brusco scarto tra il tepore del sogno e l’orrore del risveglio, in un film che si apre con uccellini che cantano alla maniera di un musical hollywoodiano, promettendo, senza mantenerla, una dimensione ovattata e protettrice. Ecco, le nostre paure moderne assomigliano davvero molto a questa sensazione: minacce invisibili che prorompono inaspettate per precipitarci nel caos della distruzione. Solo lo sconvolgente, notevolissimo incipit del Cuaron di Children of Men ha saputo fare anche qualcosa di meglio, in quella che è un’opera capitale per meglio comprendere ciò che il protratto pensiero rivolto alla guerra ha già comportato – e non solo rischia di comportare – per la nostra quotidianità.
In seguito all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001, il colosso americano colpito si è ripiegato, sulle prime, su se stesso a leccarsi le ferite: nessuna istantanea di quel momento si sarebbe stagliata con maggior efficacia del superbo La 25a Ora di Spike Lee. Solo ora, a distanza di alcuni anni, cominciano a fioccare opere che allargano la riflessione alle responsabilità dirette per il male presente nel mondo. Tuttavia gioverà ricordare come fu solo con dieci anni di ritardo che si sarebbe giunti a meditazioni compiute sul significato del Vietnam della levatura de Il Cacciatore, Apocalypse Now e, ancora più tardi, Platoon: solo così si comprenderà come ci vorrà ancora del tempo per superare traumi di tale gigantesca portata e maturarne una visione distaccata. E allora nessun affresco potrebbe suggellare in maniera più compiuta del cupissimo, piovoso Blade Runner, l’insondabile notte oscura in cui l’alba del nuovo millennio è nuovamente ripiombata: di nuovo, un noir mascherato da film di fantascienza. Il fantasma del film noir incarna in maniera trasparente la cattiva coscienza dell’America: puntuale all’appuntamento con gli anni ’80, il capolavoro scottiano torna prepotentemente attuale oggi, col suo struggente campionario di umanità allo sbando e di pericolosi replicanti, tutti malinconicamente simili, e sarà davvero un piacere raro tornare a guardarlo a Venezia “col senno di poi”. Che è divenuto il senno dell’oggi.



Enregistrer au format PDF