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L’Umorismo

Pubblicato il 7 aprile 2008 da Sara Ceracchi


L'Umorismo

Noto solo oggi, dopo qualche anno di militanza in Close-Up, che la mia rubrica non s’intitola solo vignette, ma vignette e umorismo.
Occhio di lince, direte voi, ma cosa meglio del cinema si presta e invita alla satira e allo sberleffo? Voglio dire, il cinema (come tutto lo spettacolo) si regge su quel patto comunemente chiamato “sospensione dell’incredulità”, nel quale consideriamo anche quella disponibilità a lasciarsi andare e condividere emozioni, sentimenti e certezze dei personaggi sullo schermo: però, diceva il buon Pirandello che l’umorismo nasce lì dove invece di esserci serietà nel seguire i percorsi di un dramma o anche di una commedia interviene un cambio di punto di vista, che può far sembrare drammatica la più spassosa delle gag o comica la tragedia più tragica. Ed è una conquista tutta moderna questo aver fatto pace col ridicolo, e da ciò nasce la letteratura che sentiamo più nostra, il teatro moderno, il rock, il cinema contemporaneo migliore e neanche poche conquiste sociali: insomma il primo che ai tempi rise del Re Sole che al mattino non si vestiva se non assistito dalla corte, senz’altro fu il primo dei rivoluzionari francesi.
L’umorismo però è una cosa difficile, da fare sicuramente, ma soprattutto da accettare. Perché è sottile, come una lama, s’insinua nelle nostre certezze e smonta tutto, qualsiasi cosa: ora infatti viviamo un’era in cui l’umorismo è schiacciato e messo da parte, sotto il peso dei soldi, del gigantismo e della semplificazione di massa. Non ci si può permettere di rischiare il ridicolo quando si tirano fuori i soldi per un film: le commedie stesse, in Italia come ovunque, con rare eccezioni, hanno paura della destabilizzazione. Hanno bisogno di qualcuno o qualcosa che sia comunque una certezza, basti pensare alla bella faccia di Vaporidis, un uomo che non deve chiedere mai, eppure protagonista di un film (questo ultimo nelle sale) in cui dovrebbe essere lo sfigato di turno. E invece gli basta una scazzottata e una passeggiata al mare per farsi la bella in questione.
Insomma, viviamo un periodo in cui l’arte e tutti i suoi derivati, più che scomporre, adornano. Adornano all’infinito, per far sembrare pieno quel che è vuoto, e verosimile quel che non sta da nessuna parte. Fiabe? No, magari. E il problema è che tutta questa mala serietà permea oramai tutti gli angoli del quotidiano, anzi ne è riflesso. Quante parole ben piantate sarebbero sufficienti a demolire uno dei costosissimi comizi di Berlusconi –cito un candidato a caso-? Tra palco, bandierine, seggiolini, tinture, manifesti, podio, spillette, un mare di soldi per dar consistenza al vuoto. E dire che un po’ di vero auto-umorismo renderebbe più credibile anche tutto questo.
Eppure eccoci qui, tutti col timore di sbottare a ridere al cinema vedendo Il Cacciatore di Aquiloni, perché la signora a fianco a noi è entrata in sala già piangendo perché ha letto il libro e sa che quel film è commovente per forza, perché c’è l’albero con le iscrizioni dei bambini, e gli aquiloni, e i talebani cattivi. Guai a chi ride quando nello stadio compare il talebano gay vestito come John Lennon.

Avevo iniziato quest’articolo con l’intenzione di proporre una sezione della mia rubrica dedicata alla satira scritta sul cinema, e volevo esprimermi sulla qualità della nostra commedia nelle sale. E’ però venuta fuori questa breve riflessione, diventata un invito ai lettori e alla sottoscritta a non aver paura dell’umorismo, ma a riscoprirlo, non solo quando si ha a che fare con l’arte, ma un po’ in tutte le situazioni della vita, anche quelle in cui sembra più difficile cambiare ottica: solo così non ci si sente schiavi dei superuomini, dei miti, delle sconfitte, dei luoghi comuni, dei best seller e dei blockbuster, e diventa possibile addentrarsi nel proprio mare di creatività e riflessione, senza la fretta di avvistare il porto.


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