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LA CASA DI SABBIA E NEBBIA

Pubblicato il 18 febbraio 2004 da Edoardo Zaccagnini


LA CASA DI SABBIA E NEBBIA

La casa di sabbia, nebbia e acqua Paola. E se alla fine non va a fuoco è perché ci pensa il morto posticcio a conferire quello stato di piacevole e controllato sgomento, che dura il tempo di una scala mobile che scende, e muore nello scarto di temperatura che c’è tra l’androne e l’esterno del cinema. Basta rimboccare il cappotto e uscire all’aperto per capire che la sabbia si è dispersa, la nebbia diradata e la casa scomparsa per sempre, come il film dalla nostra memoria cinematografica. Vattelo a ricordare tra un pò di tempo che in quel mélo mascherato da trhiller si provava, impazzendo di fatica, a raccontare l’ennesimo frantumo del sogno americano. Vallo a ripescare, tra i film inutili e furbeschi, questo incredibile combattimento tra stereotipi, perso da ambo le parti a colpi di luoghi comuni. Fa ridere quello dell’immigrato (ex comunista) orco e colonnello che ruba la casa al cittadino disagiato, solo e debole. Lo stesso immigrato che odia gli americani solo perché invidia il loro sogno, e di tutto il suo passato cultura e tradizione non dà traccia mai, in tutto il film. E meno male che nell’Iran degli Ayatollah era colonnello.. Dire che Loach sta all’esordiente Vadim Perelman come Elvis Presley sta a Bobby solo, non ha molto senso solo perché il neo regista ex autore di spot pubblicitari originario di Kiev deruba e profana, nella sua improbabile corsa all’Oscar, una lunga serie di nomi e filoni, per sperperarli poi in un collage giustificato solo dal bisogno di imparare guadagnando. Tra i feriti anche il fascino originario del romanzo di Andrè Dubus III, da cui il film è tratto. Ma non è detto che con i soliti ingredienti extra-quotidiani, i vecchi personaggi in antitesi intestina, i virtuosismi fantasy di una regia autistica, la dignitosa interpretazione di Ben Kingsley, e la seducente bellezza di una alcolizzata emarginata sulla quale ci soffermeremo un attimo, che alla fine il film non venga confuso, apprezzato e passato in tv, qualche lunedì sera dell’anno, come prodotto di qualità. L’ambiguità di fondo è invece tra gli aspetti più gradevoli, e sinceri, della pellicola. Forse perché hanno tutti le loro buone ragioni, o forse perché neanche il regista crede nelle vicende dei suoi personaggi. Non si può non sospettare del poliziotto amante, ad esempio. Delle sue inversioni soap e della sua storia di amore riciclata e messa in tavola tra il resto delle cose. Tra tutte le interpretazioni la migliore è di certo quella della moglie del colonnello: un’intensa Shoreh Aghdashloo, già attrice per Abbas Kiarostami, aiutata dal suo ruolo (il migliore) di donna sacrificata chiusa in casa a coltivare fantasmi e a temere per la propria sorte e quella dei suoi cari. Dicevamo prima della protagonista. La bella, bellissima Jennifer Connelly. Occhi, pelle, seni e crine... Il ritratto della salute e della sensualità. Non c’è traccia di rughe o vene. I primi piani sul pontile a tragedia compiuta, rapidi tra i veli e le onde, somigliano allo spot accattivante di un profumo. Ma allora come crederle? Come vedere in lei una vittima dell’alcool, dell’abbandono, della disperazione? Un ulteriore dubbio, già coltivato in verità ne Le invasioni barbariche ma ingoiato allora, di fronte a una Palma d’oro assai meritata. Qui, di palme, manco a parlarne.

[febbraio 2004]

regia: Vadim Perelman, sceneggiatura: Vadim Perelman, Shawn Otto dal romanzo omonimo di Andre Dubus III fotografia: Roger Deakins, David Stockton, montaggio: Lisa Zeno Chrgin, musica: James Horner, scenografia: Maia Javan, costumi: Hala Bahmet, interpreti: Jennifer Connelly, Ben Kingsley, Ron Eldar, Navi Rawat, Jonanthan Ahdout, Shohreh Aghdashloo, Frances Fisher, Kia Jam produzione: Michael London, Vadim Perelman per DreamWorks, origine: USA 2003, distribuzione: Nexo durata: 126’

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