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La Città Proibita

Pubblicato il 31 maggio 2007 da Fabrizio Croce


La Città Proibita

L’esasperazione dei sentimenti, delle situazioni e delle dinamiche all’interno di mondi chiusi, arcaici, remoti, e per questo fantastici e aperti all’immaginazione e all’invenzione poetica e narrativa, è sempre stata il fulcro, il cuore del cinema di Yimou Zhang. O, almeno, della sua anima ridondante e magniloquente, che si appropria del Mito della tradizione cinese per riproporre, in maniera critica e dialettica, un discorso sulla società contemporanea, eludendo le maglie e le pressioni della censura con cui sempre ha avuto problemi quando si trattava di opere di impianto più realistico, calate nell’attualità.
La Città Proibita è in un certo senso l’espressione più polimorfa, composita e ricca di quel gusto dell’immagine iperbolica e sensualmente avvolgente di Zhang, in quanto è possibile trovare al suo interno una serie di rimandi letterari e cinematografici che ne fanno un poderoso racconto di potere e di guerra, illustrato con una tensione estetizzante che alimenta il piacere della visione. L’idea di ambientare l’azione all’interno dello spazio chiuso e labirintico della corte dell’Imperatore Ping, discendente dell’ormai decadente dinastia Tang (siamo nel decimo secolo), offre una cornice perfetta per l’esplosione dei conflitti e delle lotte intestine tra i figli di primo letto e la "seconda" Imperatrice, e le fobie, mentre le ossessioni mortali che portano ad uno shakespeariano vortice di complotti, violenza e sopraffazione sono assolutamente presenti nelle scelte cromatiche delle scenografie e dei costumi. La predominanza di rossi fiammeggianti e gialli oro (le uniformi dell’esercito personale dell’Imperatrice) sembra vogliano uscire fuori dallo schermo e trasportano lo sguardo e l’immaginazione in una dimensione alterata, come se si stesse focalizzando internamente non solo la sfera emotiva, ma anche il pensiero, le scelte morali ed etiche compiute dai protagonisti.
Per questo La Città Proibita si decontestualizza rispetto tanto a Hero quanto a La foresta dei pugnali volanti, le due opere apparentemente più vicine per la loro natura estetica e narrativa (ascrivibile cioè al genere dello wuxia, i fim di "Cappa e spada" della tradizione cinese), in quanto le pur elaborate e complesse scene d’azione, specialmente quelle dellla carneficina finale in cui il conflitto familiare acquista i toni dell’epos, sono forse l’aspetto meno importante e più semplicemente funzionale alla svolgimento del tessuto narrativo: diciamo un’inevitabile conseguenza della narrazione dei fatti.
E mentre in Hero e ne La foresta dei pugnali volanti il dinamismo del corpo in alcuni casi diventava lo specchio dell’identità dei personaggi ed era l’essenza del loro relazionarsi, gli archetipi eroi della dinastia Tang sono espressi ad un livello più segreto, statico, iconografico, come se ci fosse chiesto di porci davanti ad un dipinto restaurato e di distruggere il restauro per rivelare una miseria esistenziale e morale, coperta ed ingannata dal valoro illusorio e artificioso del colore, mai come in questo caso simbolo di cultura e di civiltà.
I modelli che emergono da queste considerazioni sono ben altri: a livello drammaturgico ci troviamo inequivocabilmente davanti ad un racconto di tipo hitckochiano, con chiari riferimenti a Rebecca, (la nuova moglie ossessionata dal ricordo della prima e dalle cause della sua morte) e Notorius (l’Imperatore che cerca di uccidere lentamente la consorte attraverso il veleno), mentre la descrizione di un interno familiare corrotto da avidità e sentimenti di perversione e morte è la trasfigurazione in altro contesto storico e culturale delle faide della famiglia texana raccontata da Douglas Sirk in Come le foglie al vento.
In generale, il brivido del melodramma ha sempre posseduto il cinema di Zhang, ma in una forma quasi più pudica, orientale: un grido soffocato, uno squarcio di luce, un chiaroscuro accennato. Ne La Città Proibita, tutto questo sussurrare diventa a volte quasi un urlo, un eccesso sublime, una dichiarata e manifesta falsità che, in quanto tale, diventa dichiarata verità sull’uomo di ogni epoca e ogni contesto: il desiderio di possesso e di dominio di ciò che è altro da noi, soffoca ogni possibilità di vedere la bellezza e di goderne. E in fondo, lo sguardo di Zhang, appassionato e disilluso al tempo stesso, ci offre un piacere che nasconde la sensazione amara del ripianto e della desolazione: costruisce l’illusione, ma ci mette in guardia da essa.


CAST & CREDITS

(Man cheng jin dai huang jin jia); Regia: Yimou Zhang; sceneggiatura: Yimou Zhang; direttore della fotografia: Xiaoding Zhao; musiche: Shigeru Umebayashi; scenografie: Tingxiao Huo; costumi: Chung Man Ye; Interpreti e personaggi: Cho Yun-Fat (Imperatore Ping), Li Gong (Imperatrice), Jay Chou (Principe Jay), Ye Liu (Principe Wan), Junjie Qin (Principe Yu), Man Li (Jiang Chan); produzione: William Kong, Weiping Zhan, Yimou Zhang; distribuzione: 01 Distribution; Origine: Cina, 2006; durata: 1h e 51’.


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