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La fine è il mio inizio

Pubblicato il 1 aprile 2011 da Sofia Bonicalzi


La fine è il mio inizio

Nella figura di Tiziano Terzani vi è forse qualcosa di ancor più affascinante delle sue riflessioni, meditazioni sul senso dell’esistenza, della morte, del ciclo della natura, che affondano le loro radici in una dimensione culturale di ampio respiro, che va da Montaigne (“filosofare è imparare a morire”) a Confucio (la compenetrazione di yin e di yang, i principi da cui il cosmo ha origine): nulla di nuovo può forse essere detto dove il pensiero è un eterno ritorno a se stessi, una spoliazione e un abbandono delle proprie maschere metaforiche (le identità che strada facendo ci andiamo creando) e materiali (nella forma di un corpo ormai esausto).
Per oltre trent’anni, fra l’utopia di un mondo più giusto e la ferocia della disillusione, Terzani ha attraversato l’estremo Oriente, dal Vietnam alla Cina, dalla Cambogia all’India, con la curiosità dell’esploratore e lo sguardo attento dell’antropologo militante, inviando reportage alle maggiori testate europee e ammaliando gli interlocutori con i suoi resoconti di viaggio. Poi, quando l’arrivo di un cancro ha coinciso con l’esaurirsi della sua carriera giornalistica, ha scelto di approfondire il percorso di meditazione iniziato qualche anno prima, ritirandosi per tre anni sull’Himalaya, prima di far ritorno nella propria casa, sui colli fiorentini. Il pragmatico corrispondente, impegnato sui fronti più caldi del pianeta, si è progressivamente trasformato in un asceta dalla lunga barba bianca, né silenzioso, né invisibile, ma irrimediabilmente lontano dal mondo del consumo e della frenesia vuota e dissipatrice.
Tiziano Terzani si è avventurato alla ricerca di mondi lontani e ha finito per scoprire il mondo dentro se stesso, concludendo il suo viaggio (il suo cerchio) là dov’era iniziato, ormai nei pressi di quella saggezza serena che gli ha permesso di affrontare, con spirito perfino curioso, l’ultima grande avventura. Come si può trovare la forza di rinunciare al mondo dopo averlo attraversato tutto? Come si può conciliare lo sguardo indagatore e disincantato del cronista, attento ai fatti, al giorno appunto (e basterebbe leggere la lettera-articolo indirizzato a Oriana Fallaci all’indomani del suo articolo, “La rabbia e l’orgoglio”, per rendersi conto di quanto Terzani fosse consapevole delle complesse dinamiche che agitavano gli scenari mondiali del dopo 11 settembre), con quello del pensatore, che medita sull’eterno? In questa contraddizione (riconciliata) risiede, forse, il senso di incanto che ci assale di fronte a questa figura così anomala.
Anche La fine è il mio inizio, tratto dall’omonimo bestseller edito da Longanesi, è, a suo modo, un film non comune, perfino anacronistico rispetto ai modi e ai ritmi del cinema attuale: negli ultimi mesi di vita Terzani, la cui salute era ormai irrimediabilmente compromessa, chiede al figlio Folco di trascorrere del tempo con lui, nella tenuta di famiglia dell’Orsinia, per trasmettergli ricordi e riflessioni che confluiranno in un volume postumo. Folco accetta, quasi riluttante e impacciato all’inizio, poi sempre più coinvolto in un progetto che a poco a poco, come per una sorta di simbolico passaggio di consegne, diventa sempre più suo. Nelle parole di Terzani scorrono memorie di guerra e speranze di pace, osservazioni minute e grandi affreschi, ma soprattutto l’accettazione serena della propria condizione e la consapevolezza che l’unica, vera, rivoluzione è quella che si compie dentro se stessi. Man mano anche le osservazioni di Folco, prima ascoltatore passivo e spettatore indolente della sua stessa esistenza, si fanno più acute e partecipi, fino ad una sorta di viaggio finale, su quei monti dell’Orsinia che, per un istante, assomigliano alle vette silenziose dell’Himalaya.
Il film non offre una libera interpretazione dei fatti accaduti nei mesi precedenti alla morte di Terzani, ma vorrebbe essere una fedele riproduzione (o meglio un riassunto dei passaggi più significativi) del contenuto del libro, che a sua volta si proponeva come il resoconto degli ultimi colloqui fra padre e figlio (qualche variazione vi è soltanto nell’ordine degli argomenti, associati per aree tematiche): coraggiosamente il regista non offre ai racconti di Terzani lo sfondo delle pianure vietnamite o delle marce cinesi; scegliendo di rinunciare a flashback e ad effetti illusionistici, lascia emergere la forza di un racconto cui non servono le immagini (se non quelle dei volti dei due protagonisti) per risultare espressivo. Difficile però risulta formulare un giudizio sul film in quanto tale: se certamente risulta apprezzabile il tentativo di trasporre sullo schermo tematiche solitamente trascurate, tuttavia, per quanto il regista Jo Baier abbia precisato che nella caratterizzazione dei protagonisti si sia cercato di rintracciare non una semplice riproduzione, ma un possibile equilibrio fra la personalità dei vari personaggi e quella degli attori (Bruno Ganz si cala anima e corpo nel ruolo di Terzani, mentre Elio Germano interpreta Folco), si ha troppo spesso l’impressione di essere di fronte ad un calco fin troppo preciso, che in fondo aggiunge ben poco alla pregnanza delle parole di Terzani (Folco ha contribuito in modo determinante alla sceneggiatura, e a fare da sfondo al racconto è la casa, in cui nulla è stato modificato, dove realmente il giornalista trascorse gli ultimi mesi di vita). Alla fine, probabilmente, a chi già conosce Terzani il film non offrirà sguardi nuovi, mentre per gli altri tutto è rimandato, ancora una volta, alla pagina scritta.

Alla conferenza stampa milanese sono presenti Folco Terzani, Jo Baier, Elio Germano, Andrea Osvart (che interpreta la figlia Saskia). La prima domanda è per Folco: che cosa hai provato nel risentire le parole di tuo padre nel film?

Sono rimasto molto colpito dall’interesse di Jo Baier, per questi temi. È raro che il cinema se ne occupi, ma è un bene: i film hanno la possibilità di raggiungere un pubblico molto più vasto. Durante le conversazioni con mio padre, sul prato di casa, non mi era mai capitato di piangere pensando alla sua morte, ma rivedendolo sullo schermo ho provato delle emozioni molto forti. Per molti versi, mi sento ancora lontano dalle sue posizioni, il nostro non era certo un rapporto facile, ma mi affascina tutt’ora l’idea che sia possibile creare una specie di tabula rasa, di ricominciare da noi stessi. Paradossalmente, la morte può essere il punto da cui ripartire.

Elio Germano racconta del suo approccio al testo e al personaggio di Folco:

Inizialmente ero piuttosto perplesso; ci hanno sempre insegnato a dubitare dei copioni troppo corposi, ma alla fine mi sono appassionato all’idea di affrontare questo racconto in modo frontale, senza fronzoli e trucchi, affidandosi solo alla forza della parola.

In che modo è possibile realizzare oggi un film che parla della morte in questi termini?

A rispondere è il regista, Jo Bayer: “Mi sono trovato di fronte ad un materiale dall’enorme potenziale e ho subito pensato a Bruno Ganz: gran parte del film si regge sulla sua prova d’attore. Penso che il pubblico sia pronto per affrontare argomenti di questo tipo: il problema era semmai come rendere interessanti, dal punto di vista cinematografico, questi 90 minuti di conversazione. Girare il film nella tenuta all’Orsinia, circondati dalla famiglia di Terzani ci ha aiutati a trovare una concentrazione che non ci ha mai abbandonati. Ho cercato di riproporre lo stesso approccio laico, persino scettico, eppure così coinvolto, di Terzani: nel libro c’era già tutto quello di cui avevo bisogno”.


CAST & CREDITS

(La fine è il mio inizio); Regia: Jo Baier; sceneggiatura: Folco Terzani, Ulrich Limmer; soggetto: dal libro omonimo di Tiziano Terzani e Folco Terzani; montaggio: Claus Wehlisch; musica: Ludovico Einaudi; interpreti: Bruno Ganz (Tiziano Terzani); Elio Germano (Folco Terzani); Erika Pluhar (Angela Terzani); Andrea Osvàrt (Saskia Terzani), Nicolò Fitz-William Lay (Novi); produzione: Ulrich Limmer, Collina Filproduktion GmbH; distribuzione: Fandango; origine: Germania, Italia, 2010; durata: 98’


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