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La Guerra di Charlie Wilson

Pubblicato il 8 febbraio 2008 da Alessia Spagnoli


La Guerra di Charlie Wilson

Che fine ha fatto Mike Nichols? Che ne è stato di quel talentuoso regista capace di consegnare agli annali del cinema gustosi documenti d’epoca come Conoscenza Carnale, ma soprattutto, Il Laureato? A guardare questa “guerra privata del deputato Wilson”, di quell’acuto fustigatore di costumi borghesi in grado di immortalare brillantemente, e questo fin dagli esordi, i molti vizi privati di una società statunitense scopertasi amorale e decadente all’indomani della fine della stagione maccartista, non resta altro che una prova stanca, priva della carica dissacratoria che il cinema di quest’autore generalmente possiede. O almeno, così è nei suoi momenti di massima forma. Eppure Nichols era reduce, più di recente, dai fasti di Closer, film unanimemente incensato da critica e pubblico, un’opera che pareva averlo consacrato ad una seconda giovinezza professionale.
L’impietoso, e in prima battuta alquanto illegittimo paragone con The Graduate, viene sollevato dai numerosi punti di contatto tra quel suo brillante esordio alla regia e questo spento ultimo lavoro cui ha legato il suo nome. Un parallelismo improvvido, evocato soprattutto dal ruolo della Roberts, sorta di Mrs. Robinson che fa rimpiangere a calde lacrime l’originale di Anne Bancroft. C’è un’immagine, in particolare, che pare avallare l’effettiva consanguineità tra le due pellicole: la scena della piscina, vera e propria istantanea-simbolo di quel primo film. Ma se di là essa evocava piuttosto la metafora di cornice dorata, epperò ingabbiante, propria a un determinato ceto sociale (malgrado l’ariosità e la luminosità dello spazio), qui il significato va a sovrapporsi perfettamente al significante, non rappresentando altro rispetto a ciò che effettivamente è: solo l’ennesimo, vacuo status-symbol di un personaggio ancora una volta annoiato, e tuttavia privo del desiderio di affrancarsi in qualche modo da quella che neppure riconosce come dimensione coatta. Esso viene cioè svuotato di qualsivoglia messaggio subliminale, venendo meno a un tratto caratteristico nel cinema nicholsiano: l’intento di far leva sulla carica eversiva delle immagini, caricando di sottointesi ambigui ciò che anche e soprattutto un ritratto sfarzoso e gradevole ai sensi può veicolare con sé. Ecco, di quel lavoro sotterraneo sull’interpretazione del testo, quest’ultimo film pare poter (voler?) fare perfettamente a meno. Abdicando a tale attività di scavo, tuttavia, il film non si emancipa granché da un registro linguistico “piattamente” televisivo.

Ma i film di Nichols, come spesso avviene per il cinema americano, sono per la massima parte anche e soprattutto film d’attori. E qualcosa, stavolta, proprio non gira per il verso giusto neppure da questo punto di vista. Della ex Pretty Woman si diceva: spigolosa come mai prima d’ora, sfoggia un look biondo platino, che, c’è da dire, non le dona nemmeno particolarmente. Al di là dei problemi di make-up della diva, qui il vero limite sta però tutto nel suo personaggio (e, visto che di persona realmente esistente si tratta, il difetto non è nemmeno imputabile a un problema di scrittura): evidentemente pensato per ispirare stima e fascinazione, esso risulta invece sgradevole sotto ogni punto di vista. Per quanto riguarda il solitamente bravo Tom Hanks, poi, in questa occasione neppure lui pare particolarmente a proprio agio nei panni del disinvolto politicante contraddistinto da una sfrenata liceità di costumi. Si tratta ancora una volta del tema più caro all’autore, vale a dire delle mille insidie celate nella cosiddetta “bella vita”, retaggio settantesco in cui i suoi personaggi finiscono invariabilmente per venire risucchiati in una spirale autodistruttiva. Il ribaltamento prospettico in chiave “sogno americano” crea invece qui un cortocircuito interpretativo di ardua decriptazione. Ma ciò che avrebbe potuto rappresentare un motivo di fascino del personaggio, si riduce a un limite, nel momento in cui diviene chiaro che il ruolo non appartiene proprio alle corde interpretative del campione Tom Hanks, sempre più erede di Henry Fonda. Insomma, se tutti sembrano fuori parte, malgrado gli sforzi (cosa rara, per un’opera del regista) alla fine vien fuori dal naufragio il sol(it)o Philip Seymour Hoffman, evidentemente divertito nel tratteggiare il suo gustoso personaggio di triviale greco arricchitosi con ogni mezzo proibito.

A scorrere i vari nomi coinvolti nel progetto, ci si imbatte in una serie di premi Oscar da far spavento (dal regista ai principali interpreti, per finire con montatore e supervisore degli effetti speciali). E tuttavia la cornice di gran lusso non basta a coprire il vuoto o addirittura la dubbia moralità dell’operazione: come mai, difatti, diventa importante proprio ora, finanziare un’opera che ricordi come fu solamente grazie all’impegno interventista di un americano di buona volontà, che il popolo afghano sconfisse un nemico tanto soverchiante, per mezzi e capacità belliche, come quello sovietico? Una favola della buonanotte che accontenterà solo i più bisognosi di credere all’assioma per cui l’America lotta (ancora e?) sempre dalla parte del bene.
Il sogno americano, il mito dell’individualismo, dell’uomo solo le cui doti fuori del comune possono tutto, anche modificare il corso della storia trova qui, in definitiva, una delle sue più compiute esemplificazioni. Talmente tanto da risultare irritante.


CAST & CREDITS

(Charlie Wilson’s War) Regia: Mike Nichols; soggetto: tratto dal romanzo di George Crile; sceneggiatura: Aaron Sorkin; fotografia: Stephen Goldblatt; montaggio: John Bloom, Antonia Van Drimmelen; musiche: James Newton Howard; scenografie: Victor Kempster; costumi: Albert Wolsky; interpreti: Tom Hanks (Charlie Wilson), Julia Roberts (Joanne Herring), Philip Seymour Hoffman (Gust Avrakotos), Amy Adams (Bonnie Bach); produzione: Universal Pictures; distribuzione: UIP; origine: USA 2007; durata: 97’; web info: sito ufficiale


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