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La morte corre in autostrada - Inseguendo il fantasma del padre

Pubblicato il 14 dicembre 2005 da Alessia Spagnoli


La morte corre in autostrada - Inseguendo il fantasma del padre

Due immagini (pre)potenti guidano questa riflessione. Due scene tanto simili tra di loro da risultare perfettamente sovrapponibili o addirittura interscambiabili: ciononostante non si incontra alcuna difficoltà nel definirle del tutto originali, inedite perfino. Le opere che le contengono sono Non bussare alla mia porta, bistrattata, deliziosa e bizzarra commedia quasi “alla Jarmush” ed Elizabethtown, altra perla del medesimo filone e ugualmente - non a caso - poco apprezzata. Che ambedue le pellicole facciano capo al genere della commedia è un dato particolarmente illuminante e sotto più di un aspetto. Allo spettatore più smaliziato non sarà certo sfuggito il tenue eppure ben visibile fil rouge che cuce insieme e tiene unito il discorso wendersiano a quello di Crowe: la riflessione sulla incapacità contemporanea a cogliere il senso non dell’essere, ma del diventare padre nella società odierna. Torna difatti nei due film un’identica, assai vivida sintesi iconografica a rendere conto di questo rapporto irrisolto: quella dell’urna funeraria contenente le ceneri di un genitore del protagonista che “viaggia on the road” insieme con lui sul sedile del passeggero. Ora che il padre invisibile si “materializza” paradossalmente sotto una forma priva di sostanza e non può più divincolarsi dai suoi obblighi o imporre il silenzio, il figlio può davvero parlargli per la prima volta a ruota libera anche delle questioni più spinose, rinfacciargli le proprie responsabilità o - all’opposto - rivelargli senza reticenze il proprio amore.
Genitori in fuga dalle proprie responsabilità, perché traditi nelle loro stesse aspettative. Figli che si lanciano al loro inseguimento, non sapendo bene cosa attendersi da quelle che durante gli interminabili anni dell’infanzia e dell’adolescenza sono state per loro soltanto figure fantasmatiche: anche se le loro incertezze non troveranno riparo alcuno nel solco già scavato dai genitori. Probabilmente sono destinati essi stessi a commettere i medesimi sbagli: eppure per riempire quello spazio vacante all’interno di loro stessi non sanno far altro che seguire il loro istinto naturale, mettendosi sulla strada alla ricerca del padre.
Intraprendere questo viaggio iniziatico equivale ad affrontare un altro percorso, stavolta tutto interiore, verso la liberazione e la catarsi. Se i manchevoli genitori della giovane Sky e di Drew hanno allontanato da sé le difficoltà della vita sfuggendole e immettendo tra loro stessi e la terra natale quante più miglia possibili, ora è il turno dei figli a tornare sul “luogo del delitto” (o del concepimento): coprendo quella stessa strada a ritroso, in compagnia del genitore defunto, è il figlio che tenta ora di colmare in sua vece le lacune, tentando di comprendere e perdonare.
Nuova commedia, altro ritratto di un moderno genitore che potremmo definire solo con un pallido eufemismo “distratto” ed ennesimo lungo tour attraverso gli Stati Uniti: ecco il Bill Murray di Broken Flowers (anche se stavolta è il padre a tentare un’infruttuosa ricerca del figlio).
Già...ma perchè quando si parla di paternità al cinema ci si ritrova sempre all’interno di un road-movie? Come insegnava “la Madre di tutti i film” Via col Vento - dove il Vento del titolo è il Maschile (Rhett che se ne va nel finale) e il Femminile è la Terra - l’uomo rappresenta il divenire perpetuo, la ricerca infinita e tormentosa di una sfuggente realizzazione personale, mentre la donna è la stabilità e la sicurezza, il porto cui approdare nei momenti di burrasca.
L’ultimo lavoro dei Dardenne premiato a Cannes riprende molti di questi aspetti, ma propone anche alcune significative “variazioni sul tema”. I fratelli belgi svolgono il loro discorso critico in maniera più scoperta e lo collocano in una dimensione evidentemente tragica, dovuta principalmente all’ambientazione della vicenda fra il proletariato: qui ogni scelta assume una valenza fortemente drammatica - come ricordava bene l’Antonioni de Il Grido, altro sublime film su un padre inadeguato e in movimento.
Il protagonista de L’Enfant è il giovane padre: ma come “sussurrano” i registi è contemporaneamente un altro ventenne privato di un saldo modello paterno cui ancorarsi. Mosso anch’egli da un’affine tensione verso l’inafferrabile affermazione personale (che però passa - segno dei tempi moderni - attraverso l’accumulo di denaro che sfugge via tra le dita) e che si traduce in un perpetuo andirivieni per le vie della città. L’Enfant si concentra sulle azioni e i comportamenti di questo padre immaturo, per il quale il bimbo che ha concepito non rappresenta altro che l’ennesima merce da (s)vendere, come tutto il resto (un po’ più fruttifera, magari...): i valori, i legami affettivi, perfino la sua dignità. Fortunatamente però Luc e Jean-Pierre ci risparmiano il loro giudizio sull’accaduto: facendo propria la grandissima lezione rosselliniana lasciano che il dramma scaturisca piuttosto dalle immagini che non da altre vuote considerazioni. Nel cinema di questi autori gesti minuti o fuggevoli sguardi valgono più di mille parole: quanto ci dice di Bruno il modo in cui spinge la carrozzina in giro per la città, come fosse il carrello per la spesa!
La chiusa del film sembra aprire però almeno un barlume di speranza per questo novello Raskol’nikov: ricorda davvero da vicino l’epilogo sublime del "Delitto e Castigo" dostoevskijano, con il protagonista "redento" dalla sua - e non pare un caso neanche la scelta del nome - Sonja.
Lo scacco del padre è dunque insanabile, almeno a quanto raccontano tutte queste pellicole recenti, seguendo strade diverse ma approdando a conclusioni tanto vicine? Pare chiudere esemplarmente questo fiume di considerazioni lo splendido ritratto dell’imperatore giapponese Hirohito firmato da Sokurov, con il doppio fallimento personale del protagonista, che è contemporaneamente quello di figlio del Dio Sole e di Padre della Patria.


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