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La nuova commedia “etnica”

Pubblicato il 12 dicembre 2005 da Edoardo Zaccagnini


La nuova commedia “etnica”

La strada della commedia possiede, accanto a viali senza uscita in fondo ai quali c’è il tesoro dei produttori, dei rettilinei soleggiati e delle rotonde morbide, senza posti di blocco, che conducono verso città e paesi più o meno lontani: nostrani, nascosti, a volte esotici. Corsie preferenziali, dolci, dolciastre, acide, buie, pericolose ma meno di un discorso diretto, e inequivocabile, che non lascia spazio al dubbio, ammorbidente, di un sorriso amaro. Non la sottovalutare, prendila sul serio ma fino a un certo punto, perché è pur sempre una commedia. Ed è così che questa strada diventa una circonferenza planetaria e rimane battuta come un A1 di fine agosto, come un corso natalizio, come una tangenziale alle sette di sera. E’ mezza parte di questi primi cento anni di grandi immagini, in una somma di frazioni messe ogni volta in piega e in linea col tempo. Sentimentale, di costume, nera, demenziale, d’autore. Gli psicologi, o chi per loro, direbbero che la gente ha bisogno di ridere e di pensare giusto quel tanto che serve ad avere a posto la coscienza davanti agli altri e a se stessi, ma chi conosce l’argomento stoppa subito il semplicismo, filosofando da Aristofane a Woody Allen, da Moliere e Goldoni a Capra, Risi o Fellini. Delectare docere, far finta di docere, rincoglionire quasi volontariamente. Il dibattito è aperto su questa nave di risate e storie meno meravigliosa di un Rex, più inaffondabile di un Titanic, barcone multietnico, urlante, festaiolo e sottovoce clownesco. Restano i film, certi, a dirci cosa una commedia è in grado di fare. Tre esempi, quasi a caso, americani, recenti: American Beauty, tragedia etnica rasserenata dalla rassegnazione, resoconto storico di un processo culturale, cinema antropologico di mostri da stringere e rassicurare. Sideways, perdoniamoci tutti, al di là del momento e della Storia, in quanto esseri umani, piccolissimi, palpitanti, sotto i colpi dell’animale che ci muove, spinge, frena, incolpa e giudica. The Big Lebowski: cinema per il cinema, racconto magico ed eterno da amare per tutta la vita, da citare e riguardare per perdersi dentro una palla da bowling, e da lì salire e crollare, finché i titoli di coda non ci dicono che basta, a casa, lo spettacolo è finito, vi richiamiamo noi come al solito. Restano i film ma quando iniziano a somigliarsi bisogna creare una sottocartella e tentare una piccola analisi di gruppo. E’ il compito di quelli che guardano tutto e fanno ordine dentro l’infinito archivio. Gli ultimi anni ci dicono che il cinema delle nazioni e dei popoli, non solo di quelli che si stanno organizzando con accordi e monete, ama raccontare, laddove non è ancora sparito, il suo piccolo mondo antico e pittoresco, le sue tradizioni, i cosiddetti usi e costumi, forse sotto le spinte ansiogene del diktat al consumo e all’omologazione. E’ un mini-fiorire di prodotti tipici culinari, (proprio come in tv), di paesaggi locali, di bonarie incomprensioni tra giovani ed anziani, di matrimoni, più o meno grassi, che non s’hanno da fare ma che alla fine si fanno. E’ un ricordare come siamo, o forse come eravamo. Il tentativo, conveniente, di bloccare l’arnese, l’abito, il reperto dentro una scatola di vetro e mostrarlo, goffamente, a figli nati altrove che non dimentichino le origini, col rischio che gli arrivino pezzi smontati, e per ciò ridicoli, di una cultura raccontata, (può darsi, pure male). Questo è uno degli elementi chiave del filone: la simpatica stonatura che il folklore provoca a contatto con una condotta e una mentalità globalizzate, il ritardo perdonabile dei genitori che significa irreversibilità accettata del processo, coi padri che cedono e i figli che vincono applauditi ed in scioltezza. Il prodotto frizza, piace, per certi versi documenta e produce una sorta di sorta di stretta di mano tra popoli, politicamente corretta, esotica e sostanzialmente innocua, per altro non priva di gag e farsa da acchiappo. Pezzi di Grecia, d’Armenia, d’Ucraina, di Norvegia, di ex Germania dell’est, pezzi di Pakistan e nessun pezzo d’Islanda, perché Noi Albinoi è tanto indirettamente etnico quanto direttamente e terribilmente serio. Sono commedie, invece, Il matrimonio greco, grasso, famoso e campione d’incassi; la vodka al limone che sa di mandorla e che serve a stordire e a rendere sopportabile una realtà che il ghiaccio costante metaforizza bene(Vodka Lemon); la cucina che apre il cuore e scioglie la neve e la solitudine, decadente, norvegese (Kitchen stories); l’addio a Lenin e a un comunismo umano (Good Bye Lenin); la difficile convivenza tra il curry e il tè, tra Pakistan e Inghilterra (East is east, Sognando Beckham), che non può non far pensare al Frears di My Beatiful Laundrette, di altro spessore e ultimo capitolo della British Film Renessaince, targato 1986. Proprio adesso, nelle sale italiane, sono in programmazione due pellicole, tra l’altro entrambe molto ben costruite, che possono rientrare in questo filone: Everything is illuminated, di un americano di origine e ucraina, e Zucker: una commedia molto divertente che ironizza sulle tradizioni ebraiche (al di fuori dell’olocausto) e le mescola col presente di una Germania somma di due parti culturali, ovviamente, molto distanti tra loro. Tanto cinema, più o meno somigliante, più o meno originale, più o meno indipendente, più o meno ben fatto, più o meno sincero che a volte tenta la sua avventurosa e straniera corsa all’Oscar, perché se le cose vanno bene, il prossimo film è tutta un’altra storia. Allora vengono in mente Kusturica e la sua commedia etnica che dura da venti e più anni, tra Storia (vera), cinema (importante) e (auto)ritratto di un popolo, (stavolta sicuramente sincero). Viene da chiedersi, inoltre, quanto queste pellicole da mercatino artigianale ed esotico-trendy, oltre a far passare per ufficialmente locale un pacchetto fatto ad hoc per essere venduto, siano in grado di rappresentare la terra che raccontano e da cui vengono, ma anche quanto siano vicine la cinema che questa terra produce. Per raccontare una cultura col cinema basta un film originale, applaudito a un festival e fatto girare come Buffalo Bill nelle sale dei paesi ricchi e vogliosi di etno-esotismo? E’ il film che raccoglie l’etnologia o è l’etnologia che si palesa attraverso la somma de film prodotti?


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