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LA SCHIVATA

Pubblicato il 21 novembre 2004 da Mazzino Montinari


LA SCHIVATA

Il cinema in quanto arte non sfugge all’ambiguità presente in ogni forma di rappresentazione. Offre sempre lo spunto per riflettere sulla complessità delle cose di questo mondo ma al tempo stesso, proprio perché ne dà una rappresentazione, mostra di quella complessità una visione ridotta tendente, nel peggiore dei casi, allo stereotipo e all’interpretazione ideologica. Con La schivata del regista di origine tunisina Abdellatif Kechine, assistiamo al tentativo riuscito di evadere dall’ingessatura del genere, dalla costrizione di una narrazione telecomandata quando si affronta un tema piuttosto comune.
Kechine punta la macchina da presa su un gruppo di ragazzi della periferia parigina. Sono adolescenti che vivono in uno stato di emarginazione, per lo più figli di immigrati di origine araba. Dunque, esempi da manuale di una comunità in perenne conflitto con quella parte del mondo che mira solo ed esclusivamente al proprio benessere.
Detto in questo modo, La schivata sembra il solito film con i soliti risvolti drammatici, diviso a metà tra l’esibire un’umanità arrabbiata e violenta e il giustificare le possibili reazioni alle ingiustizie subite. Kechine, però, compie un’operazione diversa. Sfruttando l’espediente narrativo di una recita scolastica nella quale sono impegnati i vari personaggi, il regista franco-tunisino non mette a tema il classico conflitto razziale o tra ceti sociali, fa regredire lo scontro tra i giovani protagonisti a qualcosa di più elementare e non per questo meno radicale: in primo piano sono i sentimenti, l’amore, gli sbalzi di umore e le decisioni che per un adolescente sono vissute come qualcosa di definitivo, di vitale. Attraverso la metafora dell’opera teatrale Il gioco dell’amore e del caso di Marivaux, nella quale ogni protagonista finge di essere quello che non è (l’arte come terapia per mettersi nei panni di un altro e non per rimanere sempre uguali a se stessi), Kechine riesce a cogliere ciò che è in ognuno di noi, ossia l’esser prigionieri di noi stessi, della nostra condizione esistenziale. E’ perché siamo umani che siamo destinati a scontrarci con il prossimo o a sentirci in sintonia. Il nostro sguardo può restringersi o diventare ampio, possiamo farci interpreti della prospettiva degli altri o rimanere irretiti nel nostro punto di vista. Le ideologie di stampo religioso e nazionalistico non sono altro che pseudo-concetti, conseguenze e non cause di divisioni.
La schivata è un film che esprime freschezza e che rinuncia in partenza a quella visione paternalistica di chi dall’alto della propria cultura pensa di poter giudicare e osservare in modo compassionevole i reietti. Messa da parte la morale, i ragazzi protagonisti della storia si muovono tra amore e odio, amicizia e inimicizia, guardando al presente come se fosse già il futuro. Ognuno di loro esprime qualcosa di umano che non può essere ridotto semplicemente all’appartenenza a una religione o a una patria. E nell’epoca dei Bush e dei Bin Laden, un film così non è affatto da sottovalutare.

[novembre 2004]

Regia, sceneggiatura: Abdellatif Kechiche; fotografia: Lubomir Bakchev; montaggio: Ghalya Lacroix, Antonella Bevenja; interpreti: Osman Elkharraz, Sara Forestier, Sabrina Ouazani, Nanou Benahmou, Hafet Ben Ahmed, Aurélie Ganito, Carole Frank; produzione: Lola Films, Noé Productions; distribuzione: Mikado; origine: Francia 2003; durata: 117’.

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