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LA SECONDA NOTTE DI NOZZE

Pubblicato il 17 settembre 2005 da Edoardo Zaccagnini


LA SECONDA NOTTE DI NOZZE

Carino, ben confezionato, orecchiabile ed occhiabile, se si può dire. Pupi non si smentisce ma neanche si discosta. Si tiene a vista della sua Bologna e si concede una tranquilla e sicura vacanza in Puglia. Si fa accompagnare dall’ultimo figlioccio, il bravo ed obbediente Marcorè, il figlio che ogni mamma vorrebbe avere. Chiede indicazioni a un Albanese, di professione grande attore, che al posto di una risposta gli regala strada assieme. E la trasforma in un ricordo per noi che guardiamo e, credo anche per Pupi, di quelli duraturi. Si muove e muove la faccia, il siciliano cresciuto al Nord, compostamente, personalemente e in-credibilmente bene. Si inserisce nella morbida fotografia e nella dolce colonna sonora come l’elemento che la giustifica e la riempie. Ma, per dovere non solo di cronaca, c’è una donna nel film, di cui dobbiamo parlare. Che si chiama Katia Ricciarelli, che tutti conoscono perché c’entra con Baudo e canta la lirica. Beh, non stiamo a dire se è un’attrice o non lo è ma una cosa è certa, che con Avati, in questo film, ha lavorato bene. Ha costruito, probabilmente con l’aituo del regista e dello staff, un personaggio convincente, sensato, di donna sola, madre dentro la guerra e dentro la vita senza privilegi. Ha dato il viso con disponibilità e cervello, addirittura il corpo e non si pensava che fosse Katia Ricciarelli. Poi c’è il film, che ci racconta di un paese lontano e per questo quasi bello, che la guerra ha reso triste, furbo ed ottimista. Lo aveva già fatto Mazzacurati l’anno scorso, sempre a Venezia, con una favola più triste di cui non si era detto nulla. Forse Pupi ha un altro tocco, più raffinato, una capacità di raccontare più armonica e compatta, un rapporto tra scenari storici epocali e sentimenti minuti e senza tempo, che nelle sue mani diventa di maggior spessore. Forse, o forse quando cala il buio sa sempre chi chiamare per passare la notte. I caratteri della commedia, ad esempio, a cui ricorre in più di un’occasione, quando il dramma sociale ha bisogno di una pausa, di una sterzata verso il mondo del regista. O il canovaccio classico del furbo e dello scemo, in fondo semplici anche questi e placidi, come il cinema di Pupi. Tipi quasi fissi di un dramma zuccherato, saporito di casa di campagna, di cose fatte come una volta, di un cinema di semi-evasione, che tra l’impegno e il ritratto sceglie il secondo, perchè gli è più congeniale. Anche un Sud dove si mangia e un Nord che s’avvelena per mangiare sono un manicheismo da romanzo, un meccanismo che accattiva e piega lo spettatore all’emozione e all’intenerimento da cinema. Bisogna saperlo fare, intendiamoci, perché sennò è un disastro e Pupi ci riesce, e le mani che lo applaudono fragorosamente sono quelle della gente che al cinema ci va per quello, perché si vuole divertire e vuole stare bene. Non male, allora un bel viaggetto tra i colori che la fiction ci ha imposto come quelli di 50 anni fa, e le canzoni del periodo così belle ed esotiche. Se poi tengono pure gli incastri e i sentimenti non esagerano, il successo è assicurato. Piccola considerazione a margine. Faenza, Comencini, Avati. Famiglia, famiglia, famiglia. Il cinema italiano ufficiale parla questa lingua e, con calligrafie e penne diverse, non si muove dalla prosa.

[Settembre 2005]

Regia: Pupi Avati,sceneggiatura: Pupi Avati,fotografia: Pasquale Rachini,montaggio: Amedeo Salfa,musica: Riz Ortolani,interpreti: Antonio Albanese, Katia Ricciarelli, Neri Marcorè,produzione: Antonio Avati,distribuzione: 01 distribuzione

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