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La terra dei morti viventi

Pubblicato il 17 luglio 2005 da Edoardo Zaccagnini


La terra dei morti viventi

Che quelli di Romero siano i meno morti tra coloro che vivono nelle galassie senza recinto del cinema horror, non lo conferma solo la rivolta silenziosa, compatta e lirico-contadina che gli “appestati” del ritorno impongono ai viventi già morti di una Manhattan al buio. S’aggiunga la trasformazione rabbiosa di un oggetto in arma (che quella volta che “Lui” la montò con Strauss e l’astronave, ancora la insegnano alla prima lezione di cinema): segno evidente di vivacità e certamente più legato a una ri-nascita che a un concetto di morte e decadenza. Per il resto i vecchi “walkers” ritornano senza facoltà di corsa e senza alcuna nuova forza. Anzi, la loro arma principale continua ad essere la loro sottovalutazione e in questo senso la ricomparsa degli zombi romeriani sembra voler rintracciare quel solco “moderno” iniziato da Babbo George alla fine dei sessanta e quasi nascosto, poi, dalle zappe più bizzarre, artigianali e commerciali dei decenni a venire. Ma scoprire che i living deads apprendono dall’esperienza, novità quasi epocale per il genere che li aveva visti essenzialmente come creature stupide ed intellettualmente immobili, non può non far pensare ad una società di vivi e rimandare, con tutta calma, al presente della Storia. Diciamo prima che ci piace l’amore eterno che il regista del Bronx prova per le sue creature, mostruose ed ebeti, e la storia di questo amore libero e lungo quarant’anni che non ha impedito all’uomo con la macchina da presa insanguinata di possedere, in un altrove cinematografico e negli anni, gli oggetti diversi della sua fantasia e del suo talento. Ci piace questo amore mitico come a lui piace il suo cinema leggendario, che prima attrae, seduce e diverte, dopo forse dice. Poi prendiamo in considerazione l’aspetto sociale dell’ultimo parto, che tanto somiglia (nei lineamenti) al primogenito sessantottino. E’ il quarto figlio dopo Zombi, dopo Il giorno degli zombi, e dopo quella notte. La prima, leggendaria e mitica. La notte in cui misteriosamente i morti si risvegliarono ed assediarono la famigliola della campagna accanto, barricata in casa, indifesa, disperata, in-giustamente preda di una fame insaziabile di carne umana. Quella notte nasceva l’Horror moderno, fatto più o meno di queste parole, quasi ricopiate dalla trama di un quotidiano o dalla custodia incelofanata di un dvd commerciale. Ma i richiami politici e sociali di La Terra dei morti viventi sono talmente limpidi da far storcere il naso ai puristi (paganti) “del genere”, che lamentano carenza di suspence e non ne vogliono sapere di politica e rivoluzione, di lotta di classe e questione dei neri d’America. Che mal sopportano la rinuncia ad ogni attimo di splatter, di brivido e meravigliosa ripulsa in nome di una “pallosa” e “ma che c’azzecca” riflessione. Il sociale c’è, e confonde la finzione per eccellenza con il cinema della vita e dei problemi, tanto da avvicinare Babbo George allo zio Carpenter, (uno per cui, dopo Vietnam e watergate, le istituzioni hanno fallito e in mancanza di un ordine morale esteriore nasce un eroismo individuale, costruito sulle rovine dell’autorità istituzionale). E’ Romero stesso a spiegare che “La terra dei morti viventi è un mondo devastato in cui la gente cerca di vivere normalmente, commettendo l’errore fatale di ignorare il terrorismo e gli altri problemi sociali solo perché sono al di là della porta di casa. Questa”, conclude il regista, “è l’idea centrale del film”. C’è da chiedersi se questa contaminazione sporchi la notte del sottopelle putrido e delle budella all’aria aperta con il giorno delle masse coscienziose, dei proletari eroi e dei tiranni spodestati, o se siano gli elementi del fuori-sala a rafforzare il fascino e la potenza seduttrice di un morto che cammina. Può darsi che la fiducia nella finzione più totale garantisca all’esercito sostenitore di questo genere (più amato che considerato) la possibilità di assaporare appieno il flusso di violenza liberandola dal senso di colpa, nella piena inconscia consapevolezza (ed alibi) che quanto accade è proprio del cinema, ed assolutamente altro da spose turche, siriane, siciliane e amanti coreane. Ma è altrettanto vero che un altro tipo di spettatore trova dentro l’aspetto politico del film la sua unica forma di soddisfazione e grazie a questo è pronto a rilanciarne il valore e a dichiaraene la dignità. Il cinema della paura e dell’inverosimilmente atroce è forse bello perché finisce, come il peggiore degli incubi, in una nulla di fatto? Di certo mostra un mondo costruito su un trucco efficace, un impossibile accettato per la sua inesistenza e già per questo capace di spingere non solo gli horrorofili nelle cantine buie di un’estate torrida lasciando ad altri il compito di intasare le bollenti litoranee. Romero c’è, come direbbe un attualissimo cronista sportivo, e continuerà ad esserci visto che la nuova intelligenza apre porte interessanti al genere. Non s’arrabbino gli integralisti e li rispetti sempre, lui.

[luglio 2005]

regia: George A. Romero, Sceneggiatura: George A. Romero,Fotografia: Miroslaw Baszak, Montaggio: Michael Doherty, musica: Reinold Heil, Johnny Klimek,interpreti: Simon Baker, Dennis Hopper, Asia Argento,origine: Usa ’05 durata: 93 min.,produzione: Mark Canton, Bernei Goldmann, Peter Grunwald, distribuzione: UIP

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