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La trilogia del ’56: l’anima genuinamente commerciale di Totò (ovvero i bei tempi del Cinema Italiano)

Pubblicato il 16 aprile 2007 da Sara Ceracchi


La trilogia del '56: l'anima genuinamente commerciale di Totò (ovvero i bei tempi del Cinema Italiano)

C’è stato un tempo in cui da noi si faceva scuola di cinema agli americani. E vantarsene non è mero provincialismo, che giammai deve trovare posto nelle discussioni sull’arte in genere, bensì nostalgia sincera nei confronti di un ambiente artistico e socio-culturale che di certo non tornerà più, e mai più sarà terreno di fioritura per quel genere di cinema di cui mi accingo a scrivere.
Collochiamoci in modo preciso nella storia, ovvero tra la metà degli anni ’50 e l’inizio dei ’60. Mentre oltreoceano ci si barcamenava per strappare spettatori alla neonata TV, ora con cinescopiche produzioni (peraltro girate a Cinecittà), ora con mere scimmiottature del nostro più diluito Neorealismo, noi ci si avviava verso una stagione cinematografica che ancora una volta ci avrebbe portato sulla cresta dell’onda: i migliori registi italiani sbocciati nel dopoguerra avrebbero seguito la naturale evoluzione della spinta neorealista fino a culminare nei due film simboli di quel cinema nostro che avrebbe fatto scuola, La Dolce Vita e L’Avventura. Ma qui, appunto, siamo già nel 1960, e siamo al massimo del cinema sentito come arte: nel mezzo, ovvero dalla fine della guerra e l’inizio di questo cinema nuovo con cui tutta la cinematografia occidentale (in primis, appunto, quella Hollywoodiana) avrebbe presto dovuto fare i conti, c’è tanto materiale, più e meno nobile, spesso dimenticato, che parla di un’Italia altrettanto dimenticata sotto diversi aspetti.
Il cinema, soprattutto quello commerciale, nel nostro Paese se l’è a lungo passata bene, poiché qui la televisione non si è diffusa in fretta e subito come negli Stati Uniti: se in molti la sera uscivano di casa per andare a vedere le trasmissioni dell’unico canale al bar, tanti altri allungavano per andarsene al cinema, dove ad aspettarli poteva esserci una produzione impegnata o decisamente meno impegnata, come i film con Totò. E se le commedie del primo dopoguerra servivano a distendere gli animi così duramente provati, non più disposti a sentire spari neanche per finta al cinema, in tempo di pace inoltrata e boom incipiente le sfiziose commedie del Principe De Curtis acquistano un carattere quanto mai esplicativo della società che le ha generate e del cinema com’era a quei tempi in Italia: in particolare la trilogia del 1956 – La banda degli onesti, Totò, Peppino e la Malafemmena e Totò, Peppino e i fuorilegge - può aiutarci a descrivere più o meno esaurientemente il quadro.
I tre film si collocano al centro della filmografia di Totò e anche al centro del sodalizio cinematografico tra lui e Peppino De Filippo, e vengono girati uno sulla scia del successo dell’altro tra il Gennaio, il Giugno e l’Ottobre del ’56. Quel che più ci preme sottolineare qui è che le tre pellicole sono la bella copia del nostro attuale cinema commerciale. Soprattutto gli ultimi due (‘Malafemmena’ e ‘Fuorilegge’) hanno proprio tutti i pezzi al posto giusto per catturare gli spettatori: ci sono la bella e il bello di turno (ovviamente innamorati), ci sono i nostri che intermezzano comicamente il filo rosso di questa storia d’amore che accompagna il film, e c’è il cantante famoso che fa la sua comparsata con una bella canzone. Ma mentre gli attuali commercial italiani prendono maledettamente sul serio tutti questi ingredienti, scomicizzando la comicità e tentando, a serio rischio del ridicolo, di essere universali, i film di Totò, e questa trilogia in particolare, si distinguono per una sincerità e una disinvoltura nel presentare fatti e situazioni ormai più uniche che rare. Immersa in una produzione che in quegli anni era ricchissima e variegata, non raramente prodiga di opere pregevolissime, la trilogia – come tutti i film di Totò, anche i più nobili - fu libera dalla preoccupazione di essere un capolavoro, libertà di cui necessiterebbe affatto la nostra odierna cinematografia. E così, liberi, i tre film non si risparmiano di certo nel tratteggiare ambienti socioculturali certo caricati, ma ricalcati con esattezza su ciò che era buona parte dell’Italia (e non TUTTA, lungi da questi film l’ambizione di fornire ritratti generazionali o panoramiche sociologiche): emerge allora un ritratto parziale ma a dir poco credibile, del contrasto tra ciò che l’Italia era ancora e ciò che avrebbe voluto e iniziava ad essere, almeno per chi aveva occasione di incontrarsi e confrontarsi coi cambiamenti culturali dell’epoca.
Particolarmente ispirati, Totò, Peppino e lo zelante Camillo Mastrocinque, portano all’apice gli esiti comici di questo disorientamento, mettendo in ridicolo l’inadeguatezza del mondo antico, semplice e dialettale, che la coppia di comici napoletani sempre rappresenta, a confronto con la non meno ridicola elite ‘internazionale’ modaiola e affarista che affolla le tre pellicole (e qui almeno un cenno merita Totò a colori- 1952, regia di Steno -, per l’indimenticabile episodio della villa di Capri, dove la padrona di casa, una strepitosa Franca Valeri, parla come una rivista di gossip, e i suoi ospiti si trastullano nell’interpretare alla lettera le mode del tempo).
Ma diamo uno sguardo generale ai tre film. Ne La banda degli onesti tre spiantati cercano di svoltare fabbricando carta moneta falsa - che non spenderanno mai -, col timore perenne di essere scoperti: la loro è una Italia perbene, o che almeno così sembra o spera di essere, dove se si compie un reato ci si sente sempre gli unici, anche quando si è in buonissima compagnia. C’è il bravo figlio finanziere, c’è la fanciulla in attesa di marito, ma ci sono già compratori di case che speculano sulla miseria altrui, e amministratori (di condominio) già ben avvezzi a cedere mazzette in cambio di favori. Al centro Totò, che di cognome fa Bonocore, e il nome, certo, è tutto un programma: portiere integerrimo, moglie tedesca, vino allungato con l’acqua. Questo buonismo, in un film di questa natura, ha però il vantaggio di essere del tutto legittimo, perché rivolto al futuro, perché dettato da un ottimismo semplice che aveva allora ogni ragion d’essere e che per questo strappava il sorriso: la scialba comicità alla Totò, intessuta su temi simili (onestà e famiglia) che si trova ora solo in tante fiction di prima serata, oltretutto priva di mordente, è inadeguata proprio perché costruita su realtà passate, che tendiamo a scansare o che ci hanno già in parte deluso.
A pochi mesi di distanza da La banda degli onesti esce Totò Peppino e la Malafemmena. E’ forse il più noto dei film della coppia, se non altro per gli episodi del vigile in piazza del Duomo a Milano e per la lettera dettata da Totò a Peppino. Si verifica qui un vero e proprio ‘scontro’ di civiltà: mentre al nord il Paese cresce, e Milano sempre più diventa la capitale economica (e anche culturale) dell’Italia prossima al boom, al sud, a casa dei fratelli Antonio e Peppino Caponi, ci si chiede se nella capitale Lombarda la gente cammini coi piedi come in provincia di Napoli, mentre i risparmi si tengono malamente nascosti sotto una mattonella in camera da letto. La storia è quella di un’innocenza violata, di un bravo ragazzo di famiglia appena benestante, Gianni (Teddy Reno), che studia medicina e viene traviato dall’incontro con una biondissima femme d’alto borgo, Marisa (Dorian Gray). Scoperto l’altarino, la famiglia cerca subito di riportarlo sulla retta via e lo segue a Milano, dove Gianni si è stabilito con la sua bella, che è un’attrice di avanspettacolo: e qui, apriti cielo, ne accadono di tutti i colori, fino a che l’insospettabile sensibilità della burrosa attrice permette che di fronte alla lettera scritta in un dialetto storpiato dai Caponi, zii di Gianni, lei si commuova (al contrario della collega che invece leggendola si scompiscia) e decida di lasciare il fidanzato come le viene richiesto. Teddy Reno interviene subito intonando per lei ‘Malafemmena’ di Totò, al Tabarin, e per intercessione della mamma sua Lucia (Vittoria Crispo), convintasi che Marisa non è una malafemmena, la coppia si riaccoppia sfoderando il lieto fine che tutti aspettavano. Questa esilissima e scanzonata trama manca addirittura di un tassello alla fine del film, poiché si passa bruscamente dal rimprovero di Lucia ai fratelli Antonio e Peppino - colpevoli in fondo solo di averle dato retta nel distogliere Marisa dal nipote -, al conclusivo quadretto bucolico/familiare già completo di una non tanto piccola erede della coppia. Eppure niente riesce a turbare la portentosa comicità di questo filmetto, che si guarda e riguarda all’infinito senza che mai ci si annoi: e ciò che intenerisce è la leggerezza e l’umanità nel ritrarre l’incontro di mondi e stili di vita già allora distanti anni luce, che iniziavano a cercare un dialogo e forse, ancora docilmente, tentavano di adattarsi l’uno all’altro. E’ fuor di dubbio che mostrare tutto ciò non fosse nelle intenzioni del film; la Malafemmena vuol solo far ridere e ci riesce bene, anche solo quando Totò e Peppino arrivano con pelliccia e colbacco alla stazione di Milano, perché ‘a Milano non può fare caldo’: ma a distanza di tanti anni un film così può aiutare a riflettere su come oggi i divari tra i gruppi sociali siano sempre più larghi, come non riescano più neanche a far ridere, e quanta poca sia la volontà di appianare le distanze o quanto meno di confrontarsi. Al cinema si preferisce descrivere quadri sociali più che circoscritti, più che stereotipati, dove il dialetto – a parte il romanaccio dei bulli - e la povertà sono poco più che una vergogna.
Totò Peppino e i Fuorilegge: come l’ottimo Giacomo Furia – il pittore di vetrine Felice Cardoni - ne La banda degli onesti, qui c’è Titina De Filippo a fare da terza spalla al duo comico, riuscendo, grazie al talento istrionico tipico della sua famiglia, a surclassare lo stesso Totò. Per la seconda volta la De Filippo interpreta sua moglie (dopo San Giovanni Decollato del 1940), Teresa, ricchissima e avarissima borghese della campagna napoletana, e su queste sue caratteristiche costruisce un personaggio e degli sketch a dir poco memorabili, uno per tutti l’invito a pranzo ai danni di Peppino, il Barbiere missionario, costretto a portare il mangiare pur essendo l’invitato. Fa da sfondo alla vicenda (in cui Antonio - Totò quasi sempre è Antonio nei suoi film -, complice Peppino, si finge rapito dalla locale banda criminale di Ignazio il Torchio per ottenere un lauto riscatto dalla moglie) la storia d’amore solita tra Valeria (Dorian Gray), la figlia di Antonio, e Alberto, un giornalista in cerca di scoop (Franco Interlenghi), entrambi personaggi abbastanza stucchevoli, come Teddy Reno quando canta la canzone interpretando se stesso nell’episodio del Tabarin a Roma. Proprio qui, dove Antonio e Peppino vanno a fare baldoria coi soldi del riscatto (Roma è ai loro occhi una specie di luogo esotico) si consuma, forse inconsapevolmente, una delle più pungenti satire della società dei consumi tra le tante reperibili nei film con Totò. I due compari si presentano al night in smoking e cilindro, distribuendo banconote come caramelle (‘...a casa abbiamo degli altri, sa’?’), per fare bella figura. Chi li prende in giro alle spalle, tacciandoli di cafoneria, pure accetta di buon grado gli omaggi dei due sempliciotti; la fauna umana che compone personale e clientela del locale è fatta di signorotti e rispettive panciute consorti o accompagnatrici che si entusiasmano di fronte a spettacolini poco più che mediocri; le ballerine sono pronte a vendersi ai due cafoncelli venuti dalla campagna per un biglietto da cento ciascuna, complici i camerieri che pure fanno tanto i servitori distinti; per non parlare della contessa polacca che cerca di spennare i nostri, e soprattutto della sua dama di compagnia, la strepitosa Filippo, vestita alla garçon (‘che bel ragazzo!’ dice Peppino), e di gusti sessuali esplicitamente alternativi. La serata dei due sfortunati avventurieri si conclude con una battaglia a suon di piatti e sedie vicendevolmente rotte in testa tra tutti gli occupanti del night, cui partecipano anche gli ospiti più signorili: non sembra un caso che il tutto venga documentato da lei, la Televisione, che pian piano inizia a svendere usi e costumi alla moda, perché diventino patrimonio comune. Ma a casa, ad assistere alla trasmissione, c’è Teresa, che ovviamente giura vendetta: quando infatti Antonio viene davvero rapito da Ignazio il Torchio la consorte non ci crede e a pagare il riscatto neanche ci pensa: Ignazio – brigante bonaccione - baratterà la libertà di Antonio con un intervista di Alberto, che dovrebbe renderlo il brigante più famoso del mondo, al centro di tutte le riviste per signore e richiestissimo dai produttori hollywoodiani. Nel finale Valeria e Alberto – divenuto ricchissimo col suo scoop su il Torchio - si sposano, e il furbetto e scansafatiche Antonio viene punito come merita.
Sarà poco scientifico lasciarsi andare a questo genere di considerazioni, ma in questo film più che negli altri due il talento comico di Totò e Peppino potrebbe far risuscitare un morto: a parte i dialoghi a tre di cui già si è detto, con Titina De Filippo che da il meglio di sé (…’Questi sono i fagioli per stasera, sono novantasette. L’altra volta ne abbiamo fatti cento ma c’hanno fatto male, ne ho levati tre’...), l’impari amicizia tra il laborioso barbiere Peppino e il nullafacente Antonio è un serbatoio inesauribile di comicità. E ancora una volta grazie ai due personaggi ci viene proposto il ritratto caricaturale di una ‘Italietta’ rinata ma pur sempre meschina, chiusa nel proprio cortile a contare i propri risparmi o rivolta al futuro e all’imprenditoria, o alla malavita, al guadagno facile e al divertimento, un po’ come fossero tutte la stessa cosa: e questo sempre inconsapevolmente, solo come base per una commedia più che brillante.
A conclusione del nostro discorso è interessante dare un occhiata a come la critica coeva interpretò le tre pellicole.

A proposito de La banda degli onesti, Giuseppe Marotta : ‘Muse napoletane, abbiamo tante volte mangiato cocomeri e lupini insieme, aiutatemi a dire tutto il male e tutto il bene possibile di Totò. Chi è più attore e meno artista di lui? Chi, se non Totò, è l’unico, il massimo denigratore che Totò abbia, l’ospite furtivo, il cugino povero, il visitatore umile, frainteso, balbettante di se stesso?[..] Ha trasferito per vent’anni, sullo schermo, il Totò del varietà [..] Infatti La banda degli onesti avrebbe anche potuto chiamarsi Totò portinaio o Totò falsario, alla vecchia maniera; nessuno ci avrebbe rimesso, nè gli autori del testo, né gli interpreti né la regia [..]’.

Il Messaggero: ‘[..] Nel panorama non troppo consolante dei nostri film comici , questa pellicola [..] merita una menzione onorevole. Spigliata, briosa, dotata di un dialogo vivace e di qualche genuina trovata [..], grazie soprattutto all’interpretazione di Totò, Peppino De Filippo e Giacomo Furia’.

Su la ‘Malafemmena’, l’Avanti: ‘Il film in questione è avanspettacolo e fumetto della peggiore qualità, né la presenza di bravi attori come Totò e Peppino De Filippo si fa avvertire, almeno sul piano della buona recitazione.’

La Notte : ‘[..] E’ proprio vero: con Totò e Peppino si ride sempre. Anche se il soggetto è così povero di fantasia, di originalità, di gusto come questo. [..] Se poco ci si mettessero (diciamo gli sceneggiatori, il regista), se sforzassero le loro meningi quel tanto da tirar fuori una storia decente, siamo certi che -attraverso la recitazione di Totò e Peppino- si potrebbero vedere dei film godibilissimi. E invece... [..]’.

Su i ‘Fuorilegge’ scriveva Arturo Lanocita : ‘ [..] La farsetta recitata con spontaneità e immediatezza dai due De Filippo, da Totò e dagli altri, è priva delle grossolanità licenziose che spesso volgarizzano questo genere di film, scorre senza cigolii sino alla fine[..]’.

E Morando Morandini: ‘A pensarci è una malinconia. Totò è il più estroso comico del nostro tempo, Peppino porta ogni anno sui palcoscenici della penisola la strepitosa allegria dei nostri comici dell’Arte, Titina è, quando il copione l’aiuta, un’attrice che tiene testa a chiunque nella commedia dialettale. Che cosa potrebbero fare insieme se un produttore intelligente spendesse qualche milione in più per la stesura di una sceneggiatura scritta col cervello invece che con i piedi? Comunque, un duetto tra Totò e Peppino vale sempre la spesa del biglietto [..] ‘.

Insomma, sebbene in parte questi critici abbiano salvato la recitazione di Totò e Peppino, col senno di poi viene da chiedersi di cosa si lamentassero. Noi condannati qui ai cinepanettoni, ai cinelibretti e ai drammoni filosofico-socio-ombelicali di quelli che sarebbero i nuovi maestri di un supposto rinato cinema tricolore abbiamo non poco da invidiare a quelle ‘farsette’, sì alimentari, sì prodotte in serie, ma che, come si conviene nelle cinematografie più compiute – pensiamo a Hollywood e a Bolliwood -, mantenevano vivissimo il nostro cinema offrendo linfa vitale a quello più alto, che stava già facendo scuola oltre i confini nazionali: dozzinali a volte, ma mai volgari, superficiali sì, ma come la società in cui affondavano le radici. Divertentissimi, oggi come ieri.


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