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LA VITA CHE VORREI

Pubblicato il 18 ottobre 2004 da Edoardo Zaccagnini


LA VITA CHE VORREI

Il cinema di Giuseppe Piccioni è tutta una questione di cuori. Di muscoli fragili che si sfibrano e contraggono sotto i traumi a freddo della sollecitazione amorosa. Ma che non si strappano mai del tutto, e che trasformano la proiezione in una lenta passional monotona seduta di fisioterapia, dal dolore leggero e romantico, sopportabile più della lunghezza dell’applicazione. Si tratta di povere anime, sincere, oneste, alienate e solissime che intraprendono battaglia coi sentimenti che provano, suora, lavandaio, o autista d’autobus. Gente silenziosa, comune, impaurita dalla vita che non ha vissuto ed inchiodata ad una sopravvivenza pallida che se li mangia piano piano. Poi arriva questa forte passione e l’inevitabile lesione muscolare dovuta all’assenza di allenamento, o ad una predisposizione cronica per l’infortunio. Ma meglio lesi e sotto cura che soli, perché almeno è vivere. Da questo punto di vista il cinema di un Piccioni giunto ormai al suo settimo film è inattacabile come un’associazione di volontariato. Realistico nella complicatezza ed incoraggiante nell’atteggiamento emotivo. Ma anche sempre abbastanza macchinoso, contorto, e lungo. Questo vale anche per La vita che vorrei, che sul tandem Lo Cascio-Ceccarelli, collaudato, prode e appesantito, propone il tentativo reiterato di dissolvere la nebbia dei sentimenti che ostruisce gli occhi e mozza il fiato. E’ il cinema di Piccioni che utilizza il melodramma ottocentesco e il principio costruttivo del film nel film, così come in Luce dei miei occhi aveva fatto col romanzo di fantascienza: soltanto come impalcatura narrativa. Inutile pertanto cercare riflessioni metacinematografiche che non esistono. Inutile, ma non vietato andare a pescare citazioni e riferimenti ad arti varie, che nel film invece ci sono, e che vanno da Dumas figlio a Cukor a Cassavetes e Bergman. Poco entusiasmante cogliere l’omaggio disincantato che il regista fa al suo mondo, perché non sufficientemente brutto, né particolarmente bello: un mondo più o meno normale. Piccioni ha semplicemente melodrammizzato e ottocentizzato una storia quotidiana, in cui i protagonisti fanno gli attori di cinema e si innamorano. Si infilano i costumi e se li tolgono mentre scoprono di volersi. La loro storia, di comuni tempi e contrattempi, si consuma in un gioco di dentro-fuori, realtà-finzione, privo di intellettualismi ed esagerate speculazioni, che o ti piace o non ti piace. Se i dialoghi e i baci vi risultassero telefonati e logori, le interpretazioni mestierate e corrette, come l’illuminazione, i costumi, e la regia, se i ritratti vi sembrassero appartenere ad individui poco interessanti, anche nella loro normalità, se il film insomma, dovesse annoiarvi, sappiate che Piccioni quest’effetto può farlo, e che non siete soli.

[ottobre 2004]

regia: Giuseppe Piccioni, sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Linda Ferri, Gualtiero Rosella, fotografia: Arnaldo Catinari, montaggio: Simona Paggi, musica: Michele Fedigrotti, interpreti: Luigi Lo Cascio, Sandra Ceccarelli, Galatea Ranzi, Fabio Camilli,produzione: Rai Cinema, Mikado, Lumiere & co origine: Italia 2004, durata:, 125’distribuzione: 01 Distribution

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