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La vita invisibile di Euridice Gusmão

Pubblicato il 14 ottobre 2019 da Matteo Galli
VOTO:


La vita invisibile di Euridice Gusmão

Non bastano gli anni ’50 e una fotografia anticata e sporca per gridare al mélo, per gridare a Sirk, a Fassbinder, a Wong Kar Wai. E invece tutti concordi a inserire La vita invisibile di Euridice Gusmão, vincitore nell’ultima edizione del Festival di Cannes della sezione Un certain regard del regista brasiliano Karim Aïnouz (nato nel 1966, l’ultima cosa che avevamo visto di lui, in una sezione parallela della Berlinale, un documentario sui profughi siriani a Berlino non ci aveva per nulla entusiasmato) in questa nobile genealogia. A noi, dietro una innegabile superficie mélo, il film è parso piuttosto un film di denuncia, un po’ vetero-femminista che, per carità va bene anzi benissimo, ma che alla fine risulta un po’ troppo ingenuo e soprattutto molto manicheo.

La denuncia, la condanna, inappellabile e del tutto priva di attenuanti, va alla società patriarcale brasiliana, a partire dagli anni ’50 (gli anni nei quali si svolgono sette ottavi del film) per arrivare, nelle sequenze finali, ai giorni nostri, dove, stando all’epilogo, le cose non paiono granché cambiate, ciò che – di nuovo – appare un atto di denuncia stavolta nei confronti del neo-conservatorismo di Bolsonaro. Il film è tratto da un testo pubblicato in Italia da Feltrinelli, opera della scrittrice e giornalista Martha Batalha (nomen omen), uscito nel 2016 e intitolato come il film, anche se in Italia è stato tradotto Euridice Gusmão che sognava la rivoluzione.

L’inizio potrebbe confondere perché parrebbe tutto virato verso una tonalità un po’ alla Picnic a Hanging Rock: sullo sfondo di un paesaggio boschivo e marino o lacustre, le due ragazze sembrano perdersi (anticipazione fin troppo didascalica di quanto davvero accadrà) fin quando l’inquadratura s’allarga e sullo sfondo, seppur fuori fuoco, si vede la statua di Cristo Re. Rio de Janeiro, dunque. Con un leggero passo avanti, in un film in cui la cronologia è comunque complessa ma in fondo inutile, ci viene presentata la costellazione familiare: il padre, emigrato portoghese, fa il fornaio, la madre è una casalinga, silenziosa e succube e poi ci sono le due figlie, quasi coetanee Ana Margarida detta Guida e appunto Euridice. La prima ribelle, la seconda obbediente, anche se quel pianoforte, per quanto scassatissimo, su cui costantemente si esercita, fa comunque intuire che l’ambizione di emanciparsi dalle notevoli angustie di casa Gusmão non mancano nemmeno a lei. Epitome di tali ambizioni è il sogno di partecipare a un’audizione al conservatorio di Vienna che tanta parte avrà nel prosieguo della storia. Guida scappa con un marinaio greco verso l’Europa e la famiglia, anzi: il padre la ripudia, per lui la figlia non esiste più, nemmeno quando pentita disperata e incinta tornerà a casa. Quella figlia viene definitivamente obliterata. Euridice invece mette i sogni nel cassetto e si sposa con il figlio dell’imprenditorucolo locale, il mugnaio si direbbe, il fornitore di farina, garantendosi una minuscola ascesa sociale: dalla casa di un bottegaio semiproletario a quella di un borghesuccio del mini-miracolo economico dei tardi anni ’50.

Ascesa sociale sì, ma nessuna ascesa individuale perché Euridice passa dalle grinfie del padre alle grinfie del marito, arrapato e insicuro che ha paura della propria ombra. La principale colpa del padre, irredimibile fino in fondo, è quella di aver separato due sorelle che fin dall’inizio, pur nella loro diversità, sembrano quasi due gemelle, ed è su questa separazione coatta che si regge l’intero film: Guida immagina Euridice a Vienna novella Maria Joao Pires, Euridice immagina Guida chi sa dove felicemente sposata con il marinaio greco. E invece sono tutte e due a Rio, anche se non è facilissimo incontrarsi in una città così grande. Una volta ci manca poco, ma la malvagia drammaturgia del caso ha deciso che così non sarà e solo i figli delle due, per un istante soltanto, giocheranno assieme. Salvo un notevole colpo di scena finale, Euridice si rassegna; Guida no. Che farà senza Euridice? Per molti anni scrive scrive scrive ripetitive lettere alla sorella che ci vengono lette tutte o quasi ad alta voce mentre le loro rispettive vite vanno avanti e Guida ha comunque la fortuna di trovare una famiglia alternativa al femminile, ciò che la induce all’affermazione più ideologicamente connotata del film: «La famiglia non è sangue, ma è amore».

Un mélo prevede comunque, in qualche punto, un conflitto fra passione e dovere, qui invece tutti seguono fin dall’inizio il proprio istinto: alla sopraffazione, all’obbedienza, alla felicità e tutt’al più lamentano a bassa (Euridice) oppure ad alta (Guida) voce le rinunce subite. Solo verso la fine Euridice sembra rifugiarsi nella follia, ma è solo un accenno cui non verrà dato seguito. Conseguenza di questa staticità di fondo è anche la messinscena piuttosto ripetitiva: abiti e arredamento, luci e inquadrature sui corpi a vario titolo usati e abusati delle due sorelle. E su tutto questo grava una musica diegetica (tanto tanto Chopin) e non, a tratti davvero troppo incombente. Candidato all’Oscar come miglior film straniero e con tutte le carte in regola per finire nella short list, La vita invisibile di Euridice Gusmão è un film più che dignitoso, per carità, ma con alcune innegabili carenze, a cominciare dalla sceneggiatura.


CAST & CREDITS

(A vida invisível); Regia: Karim Aïnouz; sceneggiatura:Murilo Hauser, Inés Bortagaray, Karim Aïnouz; soggetto: Martha Batalha; fotografia: Hélène Louvart; montaggio: Heike Parplies; interpreti: Carol Duarte (Euridice), Julia Stockler (Guida), Gregorio Duvivier (Antenor), Antonio Fonseca (Manuel), Bárbara Santos (Filomena), Fernanda Montenegro (Euridice da vecchia); produzione: RT-Features, Pola Pandora, Canal Brasil Naymar; origine: Brasile-Germania 2019; durata: 139’.


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