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La vita nel cinema di Bergman

Pubblicato il 3 agosto 2007 da Edoardo Zaccagnini


La vita nel cinema di Bergman

La condizione umana. Precaria, privata, di carne ed altro. Dalla sua alba: l’infanzia, al suo culmine: la giovinezza, fino alla sua fine: la vecchiaia e la morte. Il suo cinema è stato spesso narrativamente originale, per luce e forma, come la sua televisione, il suo teatro e la sua scrittura, perché anche scrittura c’è stata nella vita artistica di Ingmar Bergman. Che pure, come tutto ciò che di metodo, canale, forma artistica esiste, egli ha preso in mano per sviscerarne potenzialità, segreti e magie, e farle sue per soddisfare quella sete infinita di essere umano che l’ha reso un grande artista ancor prima che un grandissimo cineasta. Ci ha aperto le porte del Nord Europa e va bene, e del suo mondo freddo e distante fatto di esistenze e religione ci ha dato chiavi ed istruzioni. Ha fatto strada ad un’Italia colta e disponibile di anni ’50, che ha avuto tempo e voglia di incamminarsi lungo i silenzi del paesaggio e della famiglia svedesi, presa per mano dal Maestro che mostra un mondo lontano dal nostro paese molto di più della distanza fisica che c’era tra la Svezia e L’Italia. La coppia e la donna italiane erano decisamente un’altra cosa. Ma la riflessione e le ossessioni bergmaniane saltano alla velocità del cinema i confini documentarstici di una cultura e si infilano prima nel Novecento e poi nei suoi prima e nei suoi dopo. Regista poco conciliato con sé e con il mondo, legato ad un’infanzia difficile, che si interroga, nevrotico, sulla sua natura di un uomo paradigma e mezzo di ogni altro, e su se stesso come punto di distanza e di osservazione dialettica con Dio. Quanto è grande l’amore, cos’è la vita, cosa la morte, chi Dio? Ma anche cosa è la gioia, il piacere, la felicità? L’attenzione spasmodica ad ogni variazione emotiva diventa infinito cinema e poi autostrada per registi di ogni pianeta; faro primo per studiosi, critici e puri ammiratori o amanti del cinema. La solitudine che nessuna scienza può sconfiggere, la finitudine ed il limite della condizione di essere umano, sono gli ingredienti base del cinema di Ingmar Bergman. Qual è il senso della vita? Quale il suo fine? Classico nei temi, grandioso nella loro analisi, capace, come osserva Fabio Ferzetti, “di spingersi agli estemi limiti del dolore e di trasformarlo in cinema”. Un cinema super antropocentrico con il viso al primo posto dell’inquadratura e gli occhi al primo posto del viso. Volti illuminati di luce e buio, tagliati e montati per servire il contenuto del messaggio, sempre. Un chirurgo degli stati d’animo complessi, l’osservatore al microscopio degli spasmi emotivi. Alto, di uno spessore in qualche modo lontano, il suo cinema, la sua riflessione. Capace di cogliere le profonde sottigliezze della vita e di distruggerne la valenza definitiva, l’importanza assoluta. Un cinema del pensiero filosofico e della sofferenza trasformata in acuta sensibilità. Eternamente incrostati ai suoi film si trovano la difficoltà di rompere le rigide strutture della società, l’enorme difficoltà di rivelarsi profondamente e lo strazio del rapporto tra uomo e donna. Un cinema per appassionati di vita. Quale altro senso la vita ha se non quello “divertirsi” e soffrire ad osservarla? Per tutti quelli che corrono e che pensano poco, che poveri non hanno voglia o strumenti, il cinema di Bergman è una bella mattonata, un’esagerazione di immagini e di frasi complicate. Per gli altri, è una borraccia d’acqua nel deserto, una mano tesa in un momento di solitudine, una botta in petto che aiuta a digerire un boccone in sospeso, amaro ma necessario al nutrimento.


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