Le colline hanno gli occhi
Per Wes Craven Le colline hanno gli occhi era prima di tutto il racconto, denso di simbolismi, dell’incontro tra la realtà archetipale di un uomo ricondotto ad una sorta di stato di natura bestiale e dissoluto e l’uomo “civilizzato” della Società dei consumi.
A differenza di altri titoli della filmografia del papà di Freddy Kruger, The Hills have eyes non mette avanti proclami politici, non vuole essere una riflessione precisa sulla situazione della realtà americana contemporanea, ma si concentra tutto nella logica del mito e consuma tutta la sua energia malsana nel gioco di allusioni, nei continui riferimenti culturali ad un altro poco facilmente definibile.
Il capolavoro craveniano (sia pure un capolavoro minore rispetto a Nightmare o a Il serpente e l’arcobaleno) è, insomma, un racconto puro in cui si rincorrono suggestioni antiche, da tragedia greca, quasi. Una sorta di horror western che, riprendendo lo stilema della diligenza accerchiata da indiani malevoli ed incomprensibili, pone l’accento su quanta poca sia la distanza che separa l’uomo dalla bestia.
Anzi, la dimensione puramente orrorifica della pellicola non riposa tanto sulle atrocità compiute dalla famiglia di Papa Jupiter quanto sulla lenta ed inesorabile discesa agli inferi dell’altra famiglia, quella nella quali tutti siamo obbligati a riconoscerci, che pian piano entra a contatto con la consapevolezza che la sua unica possibilità di sopravvivenza è quella di combattere il male usando le stesse armi del male, quella di ritrovare, nelle proprie mani, quella stessa furia cieca, quella stessa bestialità dei cannibali contro i quali si sta combattendo.
La finale ricomposizione familiare, dopo che i figli hanno imparato a usare i corpi dei padri come esche, dopo che l’abiezione ha portato allo smembramento dei corpi e delle anime, assume allora una connotazione quasi beffarda perché se è vero che i sopravvissuti ritornano, alla fine, nella civiltà da cui erano provvisoriamente usciti, è anche vero che lo fanno portandosi dietro il fardello metaforico di Ruby, traditrice della sua stessa famiglia di cannibali, ma perfetto punto di passaggio tra cultura e bestialità perché, in fondo, di casa in entrambi.
Per tutti questi motivi l’ambientazione diventa un elemento decisivo nella composizione del racconto: le colline di Craven sono dei veri e propri personaggi che informano il racconto, gli danno spessore polveroso e massiccio anche grazie alla macchina da presa malferma che ne riprende gli strati scistosi e desertici da paesaggi preistorici e alle musiche sperimentali che il regista ci cuce sopra. Luoghi del mito, ancora una volta, dove una famiglia di divinità greche decadute (Jupiter, Pluto ecc.) consumano pasti ferini sotto la luce goyesca dei riflessi di un fuoco notturno (è Chronos che divora i suoi figli e azzera di fatto, la distanza temporale tra l’uomo vestito di pelli d’animale e quello che indossa giacche e cravatte).
Alexandre Aja, nel rimettere mano a questo racconto mitico ed archetipale gioca di stratificazione, aggiungendo sugo politico ad una storia basica quant’altre mai.
I luoghi deputati del racconto craveniano sono tutti ripresi con scolastica precisione, ma mentre per Craven il male era una realtà ambigua ed incomprensibile, per Aja diventa uno specchio distorto entro il quale l’America può vedere riflessa e non poi tanto deformata la sua stessa immagine. Il male immotivato di Craven acquisisce una causa: è frutto dei test nucleari con la quale l’America ridefiniva, negli anni ’70, la propria egemonia nel mondo (non poi tanto diversa dalla bestialità cannibalesca di Papa Jupiter). Le grotte ataviche del film craveniano vengono sostituite da una cittadina mineraria statunitense, piena di bandiere nazionali che sventolano placide nel clima polveroso. Ci sono televisioni, radio, automobili. Lo stato bestiale di Aja è una realtà civilizzata, ma deformata. Meno malevola di quanto non appaia a prima vista. È così perché noi l’abbiamo fatta così. È la nostra colpa e il nostro rimosso.
Per questi motivi il deserto di Aja è meno pregnante di quello di Craven. Quello che abbiamo di fronte è uno sfondo, un luogo riconoscibile e conosciuto e non più un personaggio. Ma per questo motivo scompaiono dal racconto anche tre componenti doloranti della pellicola degli anni ’70: la scena del pasto notturno (quando Papa Jupiter mangia le carni dell’altro padre), la scena in cui i due ragazzi usano il corpo della madre come esca per i cannibali (quando anche al cadavere viene sottratta ogni aura umana e diventa, tra le lacrime, puro oggetto) e la scena così intensamente craveniana in cui Ruby usa un serpente a sonagli per uccidere un suo stesso fratello. Scene, queste, che non potevano avere luogo nella fantasia politica di Aja dove a contare prima di tutto è la deformazione grottesca dei corpi dei mutanti e lo smembramento delle loro vittime.
È raro che un remake riesca a reggere il confronto con l’originale, eppure Aja, pur rimanendo spesso ancorato ad un preciso immaginario di genere, e pur non riuscendo a portare alle sue estreme conseguenze l’assurto politico dal quale prende le mosse, riesce, comunque, nel miracolo di non farci rimpiangere troppo le immagini di Craven. Merito, forse, anche di un cast splendidamente in parte.
(The hills have eyes); Regia: Alexandre Aja; sceneggiatura: Wes Craven, Alexandre Aja, Grégory Levasseur; fotografia: Maxime Alexandre; montaggio: Baxter; musica: Tomandandy interpreti: Aaron Stanford (Doug Bukowski), Kathleen Quinlan (Ethel Carter), Vinessa Shaw (Lynne Bukowsky), Emilie de Ravin (Brenda Carter), Dan Byrd (Bobby Carter), Ted Levine (Bob Carter), Robert Joy (Lizard); produzione: Wes Craven, Marianne Maddalena, Peter Locke; distribuzione: 20th Century Fox; webinfo:Sito ufficiale