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Le Giustiziere dell’Eclisse

Pubblicato il 26 settembre 2007 da Alessia Spagnoli


Le Giustiziere dell'Eclisse

Donne, riprendiamoci la notte! Suonava pressappoco così un celebre slogan femminista degli Anni Settanta. Ma si tratta unicamente di un motto d’altri tempi, ormai decaduto in nome di un preteso progresso dei tempi? E’ sufficiente dare una rapida scorsa ai dati che riguardano le donne vittime di violenza, per affermare con risolutezza il contrario. Al di là dei recenti provvedimenti italiani (leggi: slogan elettorali) tesi a favorire la sicurezza delle elettrici, che lasciano il tempo che trovano e fanno, francamente, pure ridere i polli (vedi le procedure restrittive contro i lavavetri, improvvisamente indicati come la causa principale per il sentimento di diffusa insicurezza avvertito dalle donne in strada), il problema non è mai, di fatto, venuto meno.
Jodie Foster, interprete sempre consapevole e intelligente, direttamente interrogata sulla presunta componente “fascista” del film diretto da Neil Jordan che la vede come protagonista, cita invece proprio Taxi Driver, Cane di Paglia e il nostro Indagine su un Cittadino al di sopra di ogni sospetto, a scagionare dalla pesante accusa la sua ultima fatica (in cui figura anche tra i produttori esecutivi) e traslocare faticosamente i riflettori dell’interesse mediatico verso altre considerazioni, pur contenute nella pellicola: i “nobili” precedenti che cita a sua difesa sono, non a caso, tutti figli degli anni ’70, epoca d’oro per la riflessione e il dibattito sorto attorno al tema della violenza, ingenerati dalle cruente immagini di guerra provenienti dal Vietnam. Non la soluzione, ma il problema, insomma, bisognerebbe sforzarsi di mettere una volta tanto a fuoco. Oggi viviamo di nuovo quella fase, in America come in Italia, anche se, paradossalmente, in maniera molto meno diretta e soprattutto consapevole, a causa del ruolo di filtro compiuto oculatamente dalle tv, affinché alcuna scena proposta possa shockare l’uditorio, facendo smuovere riflessioni dure. E dunque il cinema, come i sogni, ha buon gioco a tornare ad assolvere alla sua funzione preposta: vale a dire quella di riportare a galla il “rimosso” albergante nelle nostre coscienze di occidentali solo apparentemente pacificati. Ed ecco altresì giustificata la dimensione buia, notturna della pellicola, necessaria a rendere credibile la materializzazione degli incubi peggiori. Nel caso specifico, la brusca cancellazione dei sogni di felicità legati alla possibilità, ormai a portata di mano, di crearsi una famiglia accanto alla persona amata.

Il fatto che ad impugnare l’arma della vendetta sia qui una “donnetta dalla faccia pulita” piuttosto che un qualsivoglia “dirty Harry” non rappresenta neppure, cinematograficamente, una novità (oltre a Tarantino c’era pure un altro precedente sempre newyorkese, come il vigoroso L’Angelo della Vendetta di Abel Ferrara): ma nel film di Jordan non si parla più, come fa Tarantino, di “giochetti” di segno metacinematografico, quanto di una riflessione compiuta intorno ai riflessi che oggi esercita la paura sulle persone, condizionandone le esistenze. Sulle donne, in particolare, che i vicoli “infestati” si ritrovano a doverli vivere quotidianamente. Le metropoli notturne non hanno mai cessato di proporre un nugolo di pericoli alle loro cittadine: New York, spacciata per “la città più sicura del mondo” dal sindaco Giuliani e poi dal suo successore Bloomberg (prima e dopo l’11/09/01), si avvicina piuttosto, di anno in anno, all’allegoria carpenteriana del carcere di massima sicurezza preconizzato ancora e sempre durante il famoso decennio d’oro seguito alle proteste sessantottesche (correva l’anno 1981: eravamo appena al giro di boa).
Con Erica Bain non siamo neppure al cospetto di una sorta di muscolosa variante di Rambo, declinata al femminile, anche se l’ottima Foster si virilizza a vista d’occhio e in corso d’opera, pur senza esser stata favorita da madre natura, col suo misero 1,61 m d’altezza (contro il metro e 83 cm della Thurman, ad esempio), ma di una donna addirittura sensibile e intelligente, segnata per sempre da una violenza priva di senso, quand’era solo a un passo dall’altare. Questo spunto di partenza narrativo riporta alla mente un’altra brillante interpretazione femminile, in un ruolo parzialmente affine: quello della “vendicatrice per amore” Golino ne Il Sole Nero. Buio nell’Anima, Sole Nero. Qualcosa sembrerebbe essersi eclissato (per sempre?) per queste donne, come messo tra parentesi. Ingiusto pretendere da loro quel raziocinio e quella saggezza che si ritiene possa far difetto impunemente ad un uomo. Secondo i sondaggi, e un’opinione largamente diffusa, le donne ucciderebbero, difatti, solo chi “amano-odiano” (figli, amanti o mariti), ma mai dei perfetti sconosciuti. L’istinto del serial-killer come quello del vendicatore solitario, rappresenterebbe un doppio possibile solo nel maschio. Ed è per questo che, pur senza rappresentare un inedito assoluto, il fatto che sia qui una donna a vestire gli scomodi panni del “giustiziere della notte”, turba profondamente e scuote ulteriori certezze.
L’esile ed emaciata Erica, che per lungo tempo non attira su di sé l’attenzione della polizia, proprio per il suo non appartenere ad una casistica già acquisita agli archivi della polizia, che soffre di insonnia e vaga di notte, rievoca a ogni passo il fantasma – in un film che nasconde davvero parecchi aspetti spettrali e sinistri – del Travis Bickle di Taxi Driver.

Dopo Scorsese, Coppola, Carpenter, Ferrara, Cimino, Spike Lee, ecco l’irlandese Jordan a unire il suo personale tassello al gigantesco mosaico costruito attorno alla città che non dorme mai. Il Buio nell’anima è un film che si iscrive però, coerentemente, all’interno della poetica jordaniana, seguendo il delizioso e sfortunatamente poco visto Breakfast on Pluto: ora il regista irlandese sveste la patina da commedia e salta l’ostacolo, compiendo quello che gli pare il possibile balzo successivo verso l’ignoto. Dopo essersi sgolato per decenni parlando dei terroristi della madrepatria, giunge ora a dire cosa significhi nel concreto vivere improvvisamente ostaggio del panico, per chi l’abbia ignorato durante tutta la propria vita. Arrivare ad impugnare un’arma non certo per diletto, ma perché “la paura mangia l’anima”. Qui si arriva ad esplicitare la teoria che l’altro da sé, la destabilizzante minaccia invisibile che toglie ogni certezza, sia stato ormai definitivamente introiettato nel sé.
L’interesse maggiore del film di Jordan risiederebbe, in ultima istanza, non tanto nella morale ambigua, che vuoi o non vuoi molti ricaveranno dalla visione del suo film (e c’è da scommettere che, pur consapevole di questo, lo stesso cineasta irlandese fosse interessato a tutt’altro… ) il film pare sia stato rifiutato sia da Cannes che da Venezia precisamente per l’alto tasso di controversia che lo contraddistingue.
Il lavoro di Jordan non mancherà, difatti, di irritare. Eppure, a parere di chi scrive, varrebbe la pena scavare più in profondità nel sentimento di stizza prodotto e andare fino al fondo di esso. Non per giustificare, ma per comprendere, almeno: questo sì.


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