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Il mio Godard

Pubblicato il 1 novembre 2017 da Anton Giulio Onofri
VOTO:


Il mio Godard

Il biopic su Jean-Luc Godard, diretto dal regista di The Artist e presentato nella scorsa edizione del Festival di Cannes, ha più nel male che nel bene fatto parlare di sé: dal naso storto all’insulto diretto, dei cinefili duri e puri, come di fronte a un reato di lesa maestà. Che abbiano ragione o meno, Michel Hazanavicius il suo film lo ha fatto come voleva lui, e invece di sputargli addosso bisognerebbe forse analizzarlo come testimonianza comunque interessante dell’odierna percezione di un’epoca non troppo lontana nel tempo come gli anni ’60, dei quali il riflusso degli ’80, il passaggio del secolo (compresa la tragedia dell’11 settembre) e l’implacabile avanzare della globalizzazione non è rimasto evidentemente che una “schiuma”, superficiale e riduttiva finché si vuole, ma unico dato oggettivo da cui partire, come è partito Hazanavicius, per parlare di un personaggio pur vivente e attivissimo, ma oggettivamente storico se considerato nel contesto più eclatante delle sue imprese artistiche e politiche, come Jean-Luc Godard. Da questo punto di vista, Le Redoutable è un documento forse addirittura imprescindibile, quasi compendiale, per valutare quanto possa essere riesumato, per reinserirlo nell’immaginario collettivo odierno, di un periodo storico e creativo fortemente ideologizzato, e pertanto penalizzato più di altri dall’incedere della Storia. Del manipolo della Nouvelle Vague, Godard fu (ed è) senz’altro il più radicale, irriducibile e impermeabile alle mutazioni e agli aggiornamenti comuni a tutti gli altri suoi sodali, da Truffaut (troppo prematuramente scomparso) a Resnais, da Chabrol e Lelouch. Il “Godard” (virgolettato) di Hazanavicius va infatti considerato come una sorta di strambo Supereroe alla Clark Kent che perde e rompe continuamente gli occhiali. Perché arroccarsi in un altezzoso castelletto a vivere del ricordo del bel tempo andato, invece di aprirsi ad una discussione costruttiva con chi comunque riesce, con efficacia rara nel cinema ’pop’ d’aujourd’hui, a ricreare quantomeno volumi e colori di un’epoca che fu, e di cui nessuno più si occupa glissando col telecomando su eventuali documentari montati coi repertori in bianco e nero e a colori? That’s Postmodern, folks! Take it or leave it. Sempre utile torna la citazione della risposta data da Gus Van Sant a chi gli chiese come mai avesse pensato al remake di Psycho: ’Perché l’originale non lo vede più nessuno!"... Una volta data per scontata la natura pop(olare) del cinema, non si può non pensare al pubblico cui è destinato il film di un regista premio Oscar, con nomi e volti celebri riportati in cartellone. Un film, per giunta, realizzato da un autore francese per un pubblico eminentemente francese, su uno dei personaggi francesi più importanti e incisivi della contemporaneità. Divertissement, pastiche, commedia, pochade, caricatura? Ma è davvero così importante trovare una definizione onnicomprensiva per un prodotto che riaccende la luce sul cimitero degli elefanti di un’epoca morta e sepolta, di cui è lecito avere tutta la nostalgia del mondo, ma è da sprovveduti pensare di condividerne il ricordo con le generazioni deideologizzate di questi anni confusi e stagnanti in una Storia senza uno stile, un colore, un sapore che in futuro saranno in grado di connotarla? Proviamo a guardarlo, torno a dire, come un film su un Supereroe dei fumetti: la Marvel e la DC sono riuscite ad attualizzare il mito di gente mascherata e in calzamaglia creata ormai mezzo secolo fa, se non di più, con un processo di aggiornamento che ha convinto anche chi ha ormai i capelli grigi e a Carnevale indossava le stesse maschere e le stesse calzamaglie. Perché non limitarsi a sorridere di questa ’caricatura’ disegnata comunque con squisito e irrispettoso affetto di una public figure oggi praticamente sconosciuta al volgo, sulla quale un prodotto così bizzarro può nuovamente puntare i riflettori e stimolarne un recupero di conoscenza e approfondimento? Gli spettatori più accorti sapranno individuare da sé le differenze con il modello originale, senza scandali e sfuriate. Chi invece ’sa’, perché c’era, rifletta piuttosto su quanto di quegli anni irripetibili è andato irrimediabilmente perduto senza pretendere da quella che in fondo vuole essere soltanto una ’commedia leggera’, una restituzione fedele di una realtà che oggi suona anche un po’ ridicolo ricordare romanticamente. Hazanavicius dichiara fin da subito le proprie intenzioni non proprio ’filologiche’, anche se ammirevoli sono le ricostruzioni degli scontri tra studenti e poliziotti del maggio sessantottino per le strade di Parigi. Utilizza i patterns tipici dello stile e della grammatica di Godard (scritte a tutto schermo, slogan spruzzati sui muri, tagli bruschi e inquadrature anatomiche ravvicinate fino al parossismo...) non per copiarli o imitarli, ma come omaggi illustrati, né lo si può accusare di ricalco pedissequo e impersonale nel gioco più peculiare del suo cinema: il fake di epoche e sguardi diversi dalla nostra attualità. Il tono è quello della commedia, e nel costruire i dialoghi con citazioni sparse e selezionate dall’opera filmata e scritta del regista di Fino all’ultimo respiro, Il disprezzo e La Cinese, sceglie con estrema naturalezza la strada del ’bignamino’: del resto sa bene che la leggerezza (magari, ok, anche un pizzico di spregiudicata superficialità che non deve suonare lesiva dello spessore del personaggio in oggetto) era il solo modo per parlare oggi di Comunismo e di Cina Maoista senza risultare pesanti, indigesti, quando non ridicoli. Insomma, senza prenderlo troppo sul serio il film può tranquillamente divertire e regalare momenti di rivisitazione storica ironica e intelligente. È vero, a volte il pedale della caricatura viene schiacciato con eccessiva disinvoltura (Bernardo Bertolucci e Marco Ferreri sono senz’altro tirati via come buffe macchiette), e il racconto della relazione di JLG con la sua musa Anne Wiazemsky conosce, nella parte finale corrispondente alla sua crisi e alla sua conclusione, momenti di stanca. Ma la lunga sequenza che precede il tentativo di suicidio accompagnata dal quarto dei Quattro Ultimi Lieder di Richard Strauss (Godard ha sempre fatto della musica classica un uso originale e coltissimo nelle sue colonne sonore) mixato a coprire i dialoghi è un gran bel colpo di cinema. Menzione speciale merita Louis Garrel, del quale, in linea con lo spirito scanzonato del film, non si crede neanche un attimo che sia né possa essere sul serio Jean-Luc Godard, ed è il primo a divertirsi come un matto nell’esibire il suo nudo frontale insieme a quello altrettanto integrale della splendida Stacy Martin, in uno dei momenti di sceneggiatura più geniali e brillanti. Ci si chiede, senza trovare risposta chiara e immediata, che accoglienza possa avere Le Redoutable fuori della Francia, o presso il pubblico cinematografico irretito dalla fiction televisiva e praticamente digiuno di cinema dell’altro secolo.

(Noticina di colore, per rendere ancor più chiaramente l’ironia con cui Hazanavicius ha affrontato l’impresa: nei titoli di coda compare, inserito nei ringraziamenti, Maradona. Sorrentinamente).


CAST & CREDITS

(Le Redoutable); Regia: Michel Hazanavicius; sceneggiatura: Michel Hazanavicius; fotografia: Guillaune Schiffman; montaggio: Anne-Sophie Bion; interpreti: Louis Garrel, Stacy Martin, Bérénice Béjo; produzione: Wild Bunch, Les Compagnons du Cinéma; origine: Francia, 2017; durata: 107’


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