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LE ROSE DEL DESERTO

Pubblicato il 3 dicembre 2006 da Edoardo Zaccagnini


LE ROSE DEL DESERTO

Gli italiani di Le rose del deserto, strappati alla penisola e buttati nella guerra, ce ne ricordano altri, sempre cinematografici, passati alla storia come Brava gente. Si finisce per volere bene a quelle generazioni con la casa nelle tasche e nella testa, a quella manciata di dialetti sotto le stelle di un altro paese. Ci lasciamo ammorbidire dal loro sognare, sperare, soffrire, cantare. Assistiamo, abituati, alla formazione della loro coscienza e della loro storia. In questo modo irrobustiamo il rapporto già consolidato che c’è tra cinema italiano e grande (o grandissima) guerra. E lasciamo sempre più isolato, ma anche libero di brillare, tutto il valore interno al capolavoro di Rosi: Uomini contro. Perché se il Neorealismo ha raccontato, attraverso la guerra, la verità storica di una società provata dalla realtà bellica, più tardi si è sviluppata, attraverso la commedia, l’arte di esorcizzare un passato pesantissimo e si è esaltata la virtù italiana dello spirito di adattamento e di sopravvivenza alle crudeltà tra popoli. I personaggi tragicomici, che qualche grande penna ha costruito nei decenni, possiamo chiamarli manipolo di uomini soldato all’italiana. Colti all’ora di pranzo dal bombardamento di un nemico meglio organizzato; fermi per un attimo a pensare, prima di conoscere una personale e indelebile linea d’ombra. Militari abili ad intenerirsi, innamorarsi e sopravvivere col segno della croce, con le parole giuste nel momento peggiore, col gesto nobile ed eroico nel suo piccolo.
Le rose del deserto mette il passo in questo solco arato, quasi cinquant’anni prima, dal suo stesso creatore. Ma riesce a camminare con un andare a tratti affabulato, con una passeggiata magica che risente del fascino de Le mille e una notte. Molti dei personaggi spingono per entrare in una dimensione che comunica con gli spazi all’italiana ma ha la pavimentazione di un territorio altro. Pensiamo al Generale affidato al morettiano Tatti Sanguineti: questo critico così incline a vestire i panni dell’attore, recita sopra le righe del realismo e, oltre a far fluire una timida eco buzzatiana, prova a condurre la sua figura di dirigente egoista dentro l’atmosfera dell’apologo. Gli altri personaggi non sono esterni a questa considerazione, anche se lo fanno in tono minore, più legati di Tatti alle righe della tradizione. Haber è un sergente maggiore, di razza bonaria, che scrive lettere d’amore dal deserto ad una moglie montanara. Lo si può descrivere come un incrocio tra il Bigagli e il Bisio di Mediterraneo: il film più vicino, dal punto di vista strutturale, a quest’ultima e divertita graffiata del maestro. Haber è un uomo buono e poco militare, pazzo senza la sua donna. Con lui, a rendersi conto della barbarie e della vita, ci sono un paio di aitanti tenenti medici che hanno gli anni dalla loro. Buoni come il pane pure questi, con la passera educatamente nel cervello ed una buona dose di risorse umane. C’è un caratterista di truppa, romano, tozzo come un tartufo e già comparsante in Pasolini, un delitto italiano e ne La Meglio Gioventù, entrambi di Giordana. Vedendolo, possono venire in mente un’altra serie, meno nobile, di titoli. E’ un granellino di romanità che ricorda, da lontanissimo, lo Jacovacci sordiano del ben più duro e realistico La grande guerra: meritato Leone d’oro a Venezia, nel ‘59, in compagnia del rosselliniano Il Generale Della Rovere. Col gruppetto di amici si aggrega un frate domenicano che ricorda, neanche questo da vicino, Fra Bastiano de Il Marchese Del Grillointerpretato da Flavio Bucci. Lo incarna un Placido che merita sempre più elogi per una serie di caratteri buffi e mostruosi che nell’ultimo anno ci hanno fatto ridere e rabbrividire: il commissario Anedda di Arrivederci amore ciao, l’attore mercenario, furbo e pusillanime de Il Caimano, il viscido pappone che accresce il fascino de La sconosciuta di Tornatore. E adesso questo frate, pane al pane vino al vino, burbero e sintetico, sporco nei panni e messaggero fedele del buon Dio. Eccoli insieme, nuova fottutissima Armata Brancaleone alle "penultime crociate", ad attraversare la guerra senza sparare un colpo ma, a differenza degli antieroi di Salvatores, quasi costantemente in mezzo al fuoco nemico.
A seppellire i morti e a rendersi conto, in maniera leggermente didascalica, di quanto gli altri siano diversi da noi ma non peggiori. Ecco l’aggancio col tema attuale: cristiani ed arabi! Loro hanno forti ed oggettive stranezze ma noi, a modo nostro, dobbiamo sforzarci di non essere chiusi e di non aver nulla da rimpiangerci e da poterci rimproverare. Insomma, nel film di Monicelli c’è la peggior guerra raccontata con una leggerezza particolare. Ci sono atmosfere leggermente affabulate e caricature da romanzo. Ma c’è la solita vecchia Italia, fatta di buoni sfaccettati e di cattivi macchiettati. C’è un film fatto a mano, senza fronzoli e colpi di scena. Un racconto giocato su due piani che parla di noi come uomini e come Nazione.

(Dicembre 2006)

Regia: Mario Monicelli; sceneggiatura: Mario Monicelli, Alessandro Bencivenni, Domenico Saverni; fotografia: Saverio Guana; montaggio: Bruno Serandrea; interpreti: Alessandro Haber, Michele Palcido, Giorgio Pasotti, Tatti Sanguineti; produzione: Mauro Berardi per Luna Rossa cinematografica; distribuzione: Mikado; origine: Italia, 2006

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