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Le Strade del Documentario Italiano

Pubblicato il 16 maggio 2007 da Alessia Spagnoli


Le Strade del Documentario Italiano

Ci andiamo interrogando, ormai da mesi, sulle più recenti derive del cinema nostrano, nel tentativo di scattarne un’istantanea utile ai fini di uno studio analitico del fenomeno. Così facendo, abbiamo scoperto, con un misto di stupore ed esultanza, come tali mutazioni si siano rivelate ad uno sguardo attento di portata ben più rilevante di quanto fosse lecito – o forse solamente comodo – attendersi.
In un primo momento ci siamo soffermati a interrogare le ragioni recondite dell’imperituro successo riservato ai cinepanettoni nostrani. Abbiamo attraversato, in seguito, la recente e fin qui inedita (per noi), strada del cinema popolare ad appannaggio pressoché esclusivo di orde di ragazzine adoranti, in cerca di rinnovate occasioni per incontrare il nuovo idolo-feticcio Scamarcio. Ci siamo concentrati ultimamente su quel cinema degnissimo, ma pressoché invisibile, che arranca nel trovare una piena visibilità e che se la deve vedere titanicamente contro i super-eroi per il pieno possesso delle sale. Abbiamo salutato infine, con rinnovato interesse, le ultime opere d’autore – di autori più o meno giovani – sorrette da un anelito al trascendente che costituisce la loro più intima ragion d’essere e che si sposa con il fecondo esercizio della critica più esigente. Quasi in opposizione a quest’ultimo, tuttavia, è emerso, con accresciuta visibilità, un’altra tipologia di sguardo, concentrato stavolta sul dato concreto e oggettuale, e che merita anch’esso di beneficiare della luce dei riflettori: esso attiene una quarta via, percorsa dapprima con tentativi timidi e isolati, poi sempre più motivati e consapevoli, di riprendere una tradizione che fu, anche da noi, ben altrimenti gloriosa.
Dopo aver scontato anni di esilio dai nostri schermi (grandi e piccoli), il vessillo del documentario italiano sembra esser tornato definitivamente in auge. Fra le più macroscopiche prove alla mano, v’è il dato inconfutabile del numero di festival dedicati esclusivamente ai film doc, cresciuto in maniera esponenziale proprio al volgere del millennio. Quali, i portabandiera? Tanto per menzionare qualche nome… Vincenzo Marra con E.A.M. Estranei alla Massa (2001), 58% (2005) o L’Udienza è Aperta (2006). Davide Ferrario con La Rabbia (2000) e La Strada di Levi (2006). Daniele Vicari con Non mi basta mai (2000, insieme a Guido Chiesa), Il mio Paese (2006). Lo stesso Guido Chiesa, che, oltre al film girato a quattro mani con Vicari, era già stato autore di titoli come Partigiani (1997, ad anticipare il bel film di fiction tratto da Fenoglio, del 2000), ma anche di Un altro mondo è possibile (2001) o di Alice è in Paradiso (2002, che lanciava invece Lavorare con Lentezza, 2004). Mimmo Calopresti con L’Ora della Lucertola (2004) e Volevo solo Vivere (2006). Davide Moroni con Sulle tracce del Gatto (2003, qui insieme ad Andrea Caccia) e Le Ferie di Licu (attualmente in sala). Emerge anche il nome di alcune, ancora poche, cineaste di talento, che proprio nel territorio del documentario hanno trovato la cornice ideale per portare avanti le proprie istanze: Costanza Quatriglio autrice di La Borsa di Helene (2002) e Il mondo addosso (2006). Giovanna Taviani con I Nostri 30 anni. Generazioni a Confronto (2004). Alina Marazzi con Un’Ora sola ti vorrei (2002) e Per Sempre (2005). E si tratta ancora solo della punta di un iceberg che va ingigantendosi e che placa l’arsura di verità di un pubblico altrimenti inebetito dall’overdose di fiction catodiche. I titoli passati rapidamente in rassegna parlano di realtà non solo nazionali, locali, ma anche di quelle presenti e passate di altri Paesi, di tutti quei popoli col loro ricco carico di storie che non ci è più consentito ignorare. Il rinato cinema italiano ha superato anche la difficile fase di stabilizzazione dell’adolescenza e pare ormai giunto a piena maturazione.
Il desiderio di raccontare anche la realtà di un’Italia in continua mutazione – in risposta a chi ama ripetere che, nel nostro Paese, in fondo, nulla cambia mai davvero – ha visto il documentario farsi carico di un interesse che attraversa le generazioni. Questa accresciuta consapevolezza ha forse giovato concretamente anche ai film di fiction, egualmente beneficiari dell’innesto di una visione irrobustita proprio da quell’approccio diretto alla cronaca quoditiana e non più corrotta dal bisogno di dover raccontare una storia, nell’accezione tradizionale del termine, a tutti i costi. Quasi seguendo quel proclama felliniano che così individuava le cause più intime in cui riposava il segreto del successo del Neorealismo: ’Ovunque puntassi la mdp, lì c’era una storia che meritava di essere raccontata’.
In questo ’nuovo principio’, invece, dapprima venne Michael Moore e il suo dittico politico-ultra-polemico e campione d’incassi in tutto il mondo: Bowling for Columbine e Fahrenheit 9/11 (vincitore di Oscar il primo, di Palma d’Oro il secondo… e chissà che la sua ultima fatica, presentata nei prossimi giorni fuori concorso al Festival di Cannes, non smuova ulteriormente le acque).
E a proposito di Cannes… Ora, anche un ’Senatore’ del nostro cinema come Ermanno Olmi, attualmente nelle sale con quello che ha dichiarato essere il suo ultimo film di fiction e che godrà proprio delle luci della ribalta della Croisette, proclama di volersi dedicare, d’ora in avanti, ai soli film documentari. Il suo è un ritorno alle origini, certamente, ma, al tempo stesso, la spia di una rinnovata fiducia nelle possibilità espressive di questa tipologia di cinema, e di uno stato di buona salute della produzione nostrana, cui andiamo tastando il polso. Oltre che di una vivacità intellettuale e culturale che lascia ben sperare anche per il futuro.



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