Le tre scimmie

Entrare in una realtà familiare con la macchina da presa, scandagliarne l’intimità alla base dei rapporti parentali è forse una delle azioni più complesse in ottica cinematografica. Bisogna saper dosare modi e tempi della narrazione, sapersi rendere invisibile in qualche caso. In questo riesce abbastanza bene Nuri Bilge Ceylan, scegliendo di confondersi nella quotidianità del piccolo nucleo (padre, madre e figlio) portato in scena.
Le tre scimmie vuole raccontarci segreti e bugie di una modesta famiglia turca. Segreti e bugie che inevitabilmente finiranno per essere svelati diventando motore di una ciclicità di azioni e reazioni che scopriremo pervadere l’intero film. Sono tre solitudini differenti che solo alla fine sembrano potersi, ma nulla di certo trapela dalle immagini, rincontrare. Sullo sfondo miseria e nobiltà della borghesia turca.
Contemporaneamente il film, a detta del suo autore, è un viaggio all’interno della psiche e dell’animo umano, nel tentativo di esplorare percorsi opposti (il tradimento e la capacità di perdonare, il coraggio di superare ricordi ed emozioni passate, il continuo oscillare tra banalità e capricci dell’esistenza) ed evoluzioni inaspettate.
Il clima iniziale insegue l’ordine temporale tipico del noir. Azioni che si dilungano in un silenzio che si ha l’impressione voglia inglobare l’intera pellicola. L’assenza pare essere il tema dominante del lavoro di Ceylan. È assenza di parole e di confronti, in un’ottica di sospensione temporale in cui ciò che accade risulta senza fine o motivazione. Alcuni spunti vengono lasciati irrisolti, certi passaggi narrativi che fanno pensare ad improvvise svolte al contrario restano prive di epilogo, quasi dimenticate dal regista. È evidentemente una scelta ragionata ma insistere troppo su ardite e continue sospensioni dell’azione non sempre garantisce quella necessaria compattezza.
Troppo dilatate alcune sequenze, insistita e fortemente rincorsa la scelta di una regia passiva che quasi perde la sua capacità di intervento ponendosi come semplice specchio che ferma e cattura ciò che gli passa davanti . Questo atteggiamento volutamente trasparente amalgama sino ad un certo punto la pellicola causando l’insorgere di più di un momento di assoluta rilassatezza, quasi stasi.
Il finale, annunciato svariate volte, trova il suo compimento solo dopo innumerevoli, e anche abbastanza pedanti, passaggi. Così la pellicola dilata la sua durata quasi sino a sfiorare le due ore di proiezione lasciando addosso un senso di evanescenza che, per quanto frutto di una precisa visione, lascia un po’ perplessi .
Il cinema del turco Ceylan si nutre di pause narrative tradotte in immagini grazie ad uno stile mai troppo invasivo. Ma se in Uzak del 2003 (Gran premio della giuria a Cannes) la narrazione era ben sostenuta dalla regia, in questo caso, pur ammettendo e rintracciando una forte riconoscibilità autoriale, il film manca soprattutto di una degna sostanza. Ceylan si conferma bravo regista ma ci saremmo aspettati qualcosa di più.
(Uc Maymun); Regia: Nuri Bilge Ceylan; sceneggiatura: Ebru Ceylan, Ercan Kesal, Nuri Bilge Ceylan; fotografia: Gokhan Tiryaki; montaggio: Ayhan Ergusel, Bora Goksingol, Nuri Bilge Ceylan; suono: Murat Senurkmez; scenografia e costumi : Ebru Ceylan; interpreti: Yavuz Bingol, Hatice Aslan, Ahmet Rifat Sungar, Ercan Kesal; produzione: ZeynoFilm, NBC Film, Pyramide Productions, Bim distribuzione; distribuzione: BIM; origine: Turchia; durata: 109’
