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Le visioni barbariche

Pubblicato il 16 maggio 2005 da Alessandro Izzi


Le visioni barbariche

Il cinema italiano, un cinema di ex migranti, tocca il tema dell’immigrazione in maniera sporadica e discontinua. Questa contraddizione in termini non dovrebbe sorprendere più di tanto perché è abbastanza comune che una società tenda ad occultare o a rimuovere nel modo più fantasioso possibile quegli elementi del proprio passato anche recente che possono apparire in qualche misura scomodi. La cosa stupisce ancor meno quando si passa ad analizzare un’industria cinematografica che, come la nostra, ha da sempre considerato la commedia come il suo veicolo di maggiore penetrazione nel mercato nazionale e che, persa ormai ogni ambizione ad imporsi all’estero con un reale prodotto d’esportazione, concentra tutta la sua attenzione nella confezione di un prodotto mediocre, abbondantemente televisivo e profondamente stereotipato.
Il modello di commedia oggi imperante (un modello che, sottolineiamo non ha niente a che vedere con il glorioso periodo della commedia all’italiana con la sua acre critica di costume) è, quindi, un modello aproblematico che mal si presterebbe a veicolare una riflessione sul tema spinoso dell’immigrazione e su quello ancor più delicato dell’integrazione fattiva degli extracomunitari nel tessuto sociale. Certo le nostre commedie sono piene di badanti e venditori ambulanti, ma la presenza di questi personaggi sullo schermo ha una funzione puramente accessoria, essi non sono mai realmente funzionali ad un discorso socio politico reale. Poiché il nucleo del discorso della commedia italiana contemporanea è il rapporto del personaggio comico con il mondo e poiché la nostra tradizione resta, comunque, quella di una comicità molto verbale, l’extracomunitario con la sua scarsa conoscenza della lingua, si presta come pochi altri alla funzione di spalla comica (si pensi alla situazione abusata della telefonata tra il “protagonista” del film e la classica badante filippina). L’extracomunitario è, in altre parole, il veicolo ideale per squisite gap linguistiche, è il perfetto ingranaggio per una ben oliata gag. Niente di più che un personaggio che non abbiamo visto mai al cinema perché, in fondo, l’abbiamo visto in mille film. Significativa eccezione, nel contesto del cinema di grande sforzo produttivo, è l’opera di Ozpetek che, messa a confronto con altri film, sembra essere, sul tema dell’integrazione, significativamente anni luce avanti. Le sue storie, affollate come sono di coppie interrazziali e di personaggi extracomunitari (spesso incarnati dalla sua attrice feticcio: Serra Ylmaz) ci raccontano sempre di situazioni ideali, di luoghi in cui l’alterità dell’extracomunitario viene accettata in quanto tale e senza alcun bisogno di omologazioni di sorta. Ma questa integrazione avviene solo in seno a uterine famiglie allargate, all’interno di luoghi sociali chiusi composti essenzialmente da “diversi” e da indesiderati. Come a dire, non senza amarezza che l’extracomunitario può trovare un suo spazio anche umanamente denso di rapporti, solo all’interno di una microsocietà di paria.
Solo nello spazio di una produzione fortemente artistica, in quello spazio dei classici film che la nostra industria dedica ai festival prima ancora che a un intensivo sfruttamento commerciale, allora, possono trovare spazio opere che toccano l’argomento in maniera attiva e mirata. A Cannes è stato, infatti, presentato un film come Quando sei nato non puoi più nasconderti, un tentativo assai deludente di toccare l’argomento con una pellicola a cavallo tra le esigenze espressive di un autore che vuole cogliere le contraddizioni del mondo di oggi e i bisogni di confermare il proprio rapporto privilegiato con il pubblico avviato con il successo di La meglio gioventù. Ma i titoli da citare potrebbero essere molti, in specie in questo scorcio di stagione che vede uscire a poco tempo l’uno dall’altro titoli come Sole nero, di chiare vocazioni documentaristiche o L’orizzonte degli eventi di Vicari.
Nel contesto di questa produzione che resta sotterranea e legata ad una distribuzione spesso minima due film restano particolarmente impressi: Prendimi e portami via (id. 2003) di Tonino Zangardi e Saimir (id. 2005) di Francesco Munzi uscito addirittura in sole due copie nella città di Roma. Comune alle due opere è la volontà di concentrare il discorso sul mondo pre adolescenziale e adolescenziale (l’età dei protagonisti delle pellicole oscilla tra i tredici e i quindici anni) seguendo una vocazione neorealistica che fa dello sguardo puro e non ancora giudicante dei ragazzi l’unico in grado di mostrarci le contraddizioni della nostra società. Ma comune è anche la voglia di imporci, quasi, l’alterità culturale dei personaggi (una bambina rom nel caso del primo film, un immigrato albanese nel caso del secondo) senza alcuna opera di mediazione, senza ricorrere a quei classici espedienti televisivi che ci portino alla considerazione tanto ovvia quanto sciocca che, pur nell’enorme diversità, siamo, in fondo tutti uguali.
Ozpetek ci aveva già raccontato, in fondo, come il reale luogo di contatto tra immigrati e società italiana avvenga prima di tutto negli strati più bassi e negletti della nostra società. Ma le famiglie allargate del regista romano erano, comunque, luoghi riconoscibilmente medio borghesi composti da esponenti di una certa intellighenzia. Munzi e Zangardi ci parlano, invece, di un mondo più decisamente proletario, fatto di quartieri degradati, di persone poco abbienti, alle soglie della povertà. In quei luoghi, insomma, dove l’illegalità è maggiormente diffusa e dove regna sovrana un’indifferente ignoranza. Luoghi in cui il mutuo sfruttamento trionfa sovrano e dove l’extracomunitario viene visto prima di tutto come ingranaggio ideale per quegli atti criminosi che affiorano poi sulle pagine dei giornali per divenire utili esempi per campagne politiche destrorse volte a porre un freno all’immigrazione stessa. Ma i due registi ci parlano in prima misura di sogni infranti, del desiderio di una vita migliore e dell’incontro scontro con una realtà abietta fatta di stentata sopravvivenza in cui tutto si fa anche semplicemente per potersi permettere qualche litro di miscela per alimentare un motorino sgangherato. E nel raccontarci la brutalità della situazione cui si adeguano gli immigrati, i due film in questione ci cominciano a parlare anche di una realtà, quella italiana, che, immersa sempre in quel comodo pregiudizio che ci permette di guardare altrove quando incontriamo un extra comunitario nella metropolitana, non da meno vive dello sfruttamento su molteplici livelli del mondo solo apparentemente sommerso degli extra comunitari. Una realtà che spiega in un sol colpo sia il finale truffautiano di Prendimi e portami via con i due bambini in fuga verso il mare da un mondo di adulti divenuti del tutto incapaci a capire, sia lo sguardo torvo e scontroso di Saimir che, perennemente diagonale rispetto alla macchina da presa mette in evidenza il desiderio del protagonista di non cogliere nello sguardo degli altri quella sufficienza con cui in genere guardiamo gli immigrati.
Un’occhiata sbilenca che, proprio fissandosi in un altrove al di là da noi, ci penetra dentro divenendo uno specchio della nostra diffidenza o della nostra indifferenza.
Ci vien facile allora dimenticare che gli immigrati sono arrivati in Italia dopo averla lungamente sognata come ha fatto il Conte Dracula di Zora la vampira (id., 2000), forse il più illustre dei nostri immigrati cinematografici. Un personaggio che dopo aver visto i candidi colli delle nostre veline televisive si imbarca in un viaggio che lo pone a contatto prima di tutto con la degradazione delle periferie urbane e di tutta quella realtà metropolitana che la nostra televisione non inquadra mai. Un film, quello di cui parliamo, inaspettatamente politico perché, se ci pensiamo un momento ci parla proprio del nostro modo di vedere gli immigrati. Perché cos’altro sono per noi italiani opulenti e sazi gli extracomunitari se non dei vampiri venuti da fuori per succhiarci il sangue del lavoro e dei soldi? Un bel discorso, insomma, quello portato avanti dai fratelli Manetti in questo film. Ma un discorso che troverà miglior terreno nel genio di Guy Maddin nel suo impressionante capolavoro del 2002 Dracula pages from a virgin diary (guarda caso un regista canadese) in cui l’avanzata del vampiro, che dallo zingaresco oriente si insedia nel cuore della società capitalistica, è sottolineata dalla beffarda scritta “Immigrants!” Il vampiro va ucciso in quanto diverso e mostruoso, ma quello che realmente interessa i suoi aguzzini, nella polemica fine del film, non è tanto il mostro quanto il tesoro che esso va occultando. Quando il vampiro apre le sue vene dinnanzi al gruppo di esterrefatti assassini quelle che viene fuori ad interrompere il bianco e nero della pellicola non è tanto il rosso del sangue e della passione, quanto piuttosto il verde dei dollari e dell’economia. E forse, proprio alla fine del film, può sfiorarci quel dubbio che tanto cerchiamo di rimuovere, e cioè, che in fondo i veri vampiri capaci di sfruttare il lavoro mal pagato siamo proprio noi.

[maggio 2005]


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