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The Lehman Trilogy: uno spettacolo epico ed epocale.

Pubblicato il 7 gennaio 2017 da Monia Manzo


The Lehman Trilogy: uno spettacolo epico ed epocale.

L’ultimo lavoro ronconiano rappresenta forse uno dei punti più alti della poetica del teatro contemporaneo in Italia sia per l’imponente drammaturgia (di un eccellente Stefano Massini), sia per la persistente personalità e geniale regia dell’ormai compianto maestro.
Lo deduciamo, evidentemente, non solo dal successo di pubblico di questi 2 anni di repliche, ma soprattutto dall’innegabile energia di uno spettacolo che cerca uno standard elevato, mai tradito nel tempo.
In breve la storia, sempre affascinante: da un paesino della Baviera parte Rimpar, un giovane ebreo, figlio di un mercante di bestiame alla volta del molo numero quattro del porto di New York. Sceso dalla nave “Burgundy”, con le scarpe nuove, otto chili e mezzo in meno dopo quarantacinque giorni di navigazione, l’11 settembre del 1884 alle 7 e 25 del mattino, come segna il grande orologio sulla torre del porto della città, lo aspetta un destino travagliato.
La storia dei fratelli Lehman più più che una saga sembrerebbe un racconto epico, con le sue altezze e le sue rovinose cadute.
È meraviglioso il fatto che centosessanta anni di capitalismo vengano narrati in modo omogeneo nonostante i diversi stili: romanzo, incubi della mente, avventure, dove non ci sono pause narrative ma tutto è raccontato in terza o in prima persona e i protagonisti sono allo stesso tempo narratori e rappresentazione di se stessi. Potremmo paragonare il testo di Massini ad un film della memoria, una moviola che va avanti e indietro nel tempo, dove si nasce e si muore ma dove qualcosa di ciò che si è stati permane e si può addirittura ritornare nell’aldilà solo nel momento tragico in cui non si ha più speranza di cambiamento.
Questo spettacolo rappresenta in effetti la vita semi onirica di tre fratelli e dei loro discendenti, che hanno traghettato l’imponente azienda e holding finanziaria verso la rovina, tutto sotto gli occhi di “sei uomini anziani che aspettano la notizia” della fine.

Lehman Trilogy, che come dice il titolo si divide in tre sezioni più un epilogo mentre lo spettacolo, che dura circa cinque ore e mezza è costruito in due parti (può essere visto diviso o tutto filato), racconta del sogno di tre fratelli, Henry, Emanuel, Mayer. Il primo, il maggiore, è la testa, il secondo il braccio e il terzo è quello che sta fra la testa e il braccio affinché “il braccio non spacchi la testa e la testa non umili il braccio”. Non per niente è detto familiarmente Bulbe (patata), una superficie liscia che può insinuarsi ovunque, smussare gli angoli comportamentali fra i due e attutire i colpi. La loro storia americana inizia al Sud, a Montgomery, Alabama, prima come venditori di stoffe e di abiti, poi come acquirenti di cotone grezzo e venditori del medesimo alle industrie. Poi, via via, eccoli entrare nel grande business delle ferrovie, quindi nella Borsa di New York cui consegue la nascita della banca. Insomma, dall’insegna Henry Lehman sul primo negozietto a quella con su scritto Lehman Brothers sul grande palazzo di New York dove però, alla fine, della famiglia non c’è più nessuno, dove dominano sempre di più le spericolate operazioni dei trader e si fanno sentire i primi scricchiolii fino al terribile crack finale del 15 settembre 2008 che getterà nel panico non solo Wall Street ma anche le Borse europee.

La più importante domanda che possiamo farci su un capitolo così lungo del teatro italiano è: perché Ronconi ha scelto un testo che parla di economia e relative scelte di tutti i discendenti di una famiglia tanto newyorkese quanto lontana come i Lehman? Quanto il testo di Massini ha potuto condizionare e essere condizionato dall’intervento Ronconiano?
Dopo decenni di regie e stupendi o meno originali spettacoli, e in alcuni è sempre la tematica del denaro e del business ad affascinare il maestro (La colpa è sempre del diavolo di Ruffolo, Inventato di sana pianta ovvero gli affari del Barone Laborde di Herman Broch, La compagnia degli uomini di Edward Bond, Santa Giovanna dei macelli di Brecht), tutti coloro che amano "il teatro" conoscono i punti nodali e strutturali del prodotto che rendevano unico Luca Ronconi. Ora invece ci si domanda se la lingua, il raccordo tra tra i codici, possa essere altro rispetto al suo reale significato.
Il lavoro su un testo "classico" o su un testo di per se già noto, ha come scopo quello di una resa estetica quasi obbligata, visto il livello di importanza che il significante, con relativa fonetica ricoprono, ma cosa accade nel momento in cui i troviamo di fronte a una drammaturgia, che ha il suo centro nel mondo dell’economia ebreo-americana, fatta di emigrazione, dolore, indefesso lavoro, emarginazione, riscossa sociale, stigmatizzazione del businessman ante litteram?
Massini utilizza un linguaggio elevato, ma non aulico, a tratti quasi cinematografico, (flasback, immaginarie soggettive dall’alto dei fantasmi dei Lehman, continue digressioni narrative) mai poetico, non troppo teatrale, nonostante questo lavoro di avvicinamento alla lingua comune, Ronconi si è riuscito ad inserire a piene mani plasmando il testo secondo la sua visione registica.

La lingua degli uomini d’affari si trasforma in una sinfonia, un esperimento linguistico, in cui le immagini sono evocate più che dai discorsi, dai suoni riprodotti dalle splendide voci e da interpretazioni uniche nel loro genere, attraverso le ormai riconosciute personalità artistiche nella prima parte: Massimo Popolizio, abilissimo nel rendere un personaggio piuttosto ostico e ambiguo, Mayer Bulbe, un uomo dall’insinuante personalità, pungente al momento opportuno ma di solito liscio come "una patata", Massimo De Frankovic, invece è Henry, "la testa" il primo dei Lehman ad arrivare e il primo a morire, e l’unico a mantenere un’umanita integra, egli si trova nel guado tra ciò che rappresenta il passato e la cultura originaria e ciò che si dovrebbe diventare, un esempio lampante dell’ebreo emigrato in America, Fabrizio Gifuni, è Emanuel, il "braccio"per la prima volta diretto da Ronconi, molto convincente e carismatico, Paolo Pierobon, bravissimo, mentre il secondo capitolo vede protagonista una delle più promettenti figure attoriali del nuovo teatro italiano, Fausto Cabra.
Unica figura che differisce per impostazione e interpretazione è quella del funambolo di Wall Street, Paprinskj, personaggio immaginario, interpretato da Fabrizio Falco, che per buona parte dello spettacolo sovrasta la scena camminando realmente su una trave, dando un contributo importante sia recitativo che scenografico.
Di grandissimo livello sono anche le scene: minimali, uno spazio bianco, in cui si muovono dei praticabili, caratterizzati da un tono che evoca l’idea della morigeratezza dei protagonisti, guidati da scritte che vengono da loro scritte su un enorme pannello in cui si rimanda di continuo alla loro cultura ebraica.
Uno spettacolo importante che segna sia la fine che l’inizio che la fine di una stagione teatrale, ma non solo: Lehman Trilogy rappresenta un lavoro che quasi sicuramente avrà ancora molti riscontri e richieste di repliche, vista la sua imponenza.
Il testo di Massini ha dimostrato di avere comunque un ruolo importante nella creazione dell’opera ronconiana: il regista Sam Mendes si sta occupando attualmente della versione inglese dello spettacolo. Attendiamo impazienti i risvolti futuri.


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