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Lo stadio vuoto

Pubblicato il 4 gennaio 2021 da Edoardo Zaccagnini


Lo stadio vuoto

Iniziamo qui con questo contributo pieno di nostalgia per la mancanza del pubblico negli stadi una nuova rubrica settimanale " VAR - Il critico nel pallone" che comparirà ogni lunedì, dedicata al rapporto calcio-cinema-spettacolo-cinefilia. A turno redattori/redattrici della nostra rivista si occuperanno del ricordo di una grande personalità, della recensione di una partita, del campionato, delle coppe, o di tanti altri argomenti riguardanti il mondo del calcio e dello sport, il tutto visto però da un’ottica non da tifoso, bensì generale comunicando soprattutto il piacere del gioco. Nella convinzione che ho sempre avuto da quando è stata fondata Close-Up, che il cinema e il calcio hanno in comune due cose fondamentali che le avvicina: motion e emotion.

Buona lettura se vi va e vi interessa (G.Sp.).

Già mi mancavano gli spalti ricoperti di siepe umana ininterrotta, quelli che non vedevi le gradinate vicino alle vetrate, solo corpi accalcati pure nelle file basse, o a fil di prato. Già mi mancavano gli stadi di quando ero bambino, sempre più rari nel calcio italiano ipertelevisivo: quelli di certe partite con più gente di quanta ce ne dovesse stare, di quel calcio che andare allo stadio era l’unico modo per vedere la partita, senza seggiolini numerati, senza scalinate libere, con un paesaggio ininterrotto di voci, respiri e colori in attesa paziente già da un’ora buona prima della gara. Come faccio, oggi, ad emozionarmi davvero per un campionato senza pubblico? Ci provo, perché in un tempo così amaro anche un torneo con gli spalti colorati col computer e le voci degli atleti che rimbombano desolanti, lo leggo come un segnale positivo, come un assurdo che offre la sua mano, come un utile obbrobrio. Meglio cosi che senza, meglio una mezza partita che nessuna partita. Perché un barlume di normalità tutto questo lo porta. Però ogni volta che mi lascio andare poco dopo mi ritraggo: se mi abbandono al vero avverto la sottile nausea del finto. Allora aspetto, aspetto e un po’ anche sogno che torni lo sciame colorato e saltellante verso lo stadio. La mandria felice in una domenica col sole o mentre sta facendo buio ed è bagnato e le luci grandi di un sabato sera d’inverno illuminano i piazzali grandi intorno all’astronave, e senti i fischi e il vociare festoso, il rumore metallico dei cancelli, il sapore dolce della vigilia. Aspetto che torni la piccola fibrillazione e il piacere di salutare il popolo radunato, la comunità di estranei che magicamente, misteriosamente si riconosce e si riabbraccia. Aspetto quella minuta, preziosa gioia che tutto il resto, il serio, lo metti da parte per varcare l’invisibile zona franca che sospende le cose importanti, primarie, che é una dolce pausa lunga tre quattro ore, perché se oggi si vince si mette bene, anche se è dura, però vorrebbe dire che, darebbe questa possibilità, visto che sugli altri campi, stando agli altri risultati.. Ma per godermi davvero questi momenti mi manca la gente allo stadio: il padre col figlio piccolo per mano, il tizio che da dove sbuca fuori un tizio del genere? L’anziano che tira fuori nomi tipo Pizzaballa, Paolo Conti, Domenico Penzo. Mi mancano le sciarpe al collo e un motorino che passa con l’asta della bandiera tra braccia di quello che sta dietro. I curvaroli recenti, i professionisti ben vestiti in Monte Mario, i bagni a fine primo tempo, il rumore del goal e quello del tiro fuori di un soffio, i fischi, il brusio, il boato, gli applausi, le canzoni storiche e quelle nuove che non conosci il testo. Mi mancano le comparse che insieme fanno un grande protagonista, lo sfondo che diventa grande attore, i paganti che valgono il prezzo del biglietto, il cuore e il senso profondo di questo gioco. Mi manca il fumo delle sigarette in controluce, la gente che si alza quando la giocata promette bene, i rioni scritti sulle pezze, i club, il giallo ocra e il rosso pompeiano, le tante età e città sociali una vicina all’altra, che per un paio d’ore ne formano una sola. Mi manca la gente che ha risposto all’appello, la caccia al biglietto, il gremito ogni ordine di posti, i vigili urbani e i lampeggianti della polizia, le macchine parcheggiate, le bancarelle di bandiere. Mi manca questo più dello scudetto della mia squadra del cuore che non lo vince da vent’anni. Lo baratto volentieri con la possibilità certa, imminente, di poter tornare a fare festa insieme, a sentire l’inno all’inizio iniziale e se si vince quello alla fine, che sospendi ogni discorso sui soldi e gli interessi del calcio malato e solo business. Non ora, ora vivi l’emozione tua e quella che speri, magari ti illudi, da ingenuo, di trasmettere, da granello dello spettacolo sugli spalti, al fuoriclasse e a chi guarda da casa in tv. Mi manca questo perchè senta davvero credibile e completo, davvero vero, il gioco del calcio. Mi manca di tornare a incontrarci tra attori e spettatori, a confonderci di nuovo e ad afferrare, in coro, se capita anche lacrimando, la bellezza snobbata, sfuggente, enorme della normalità.


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