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Lontano dal paradiso: Le magie di Todd Haynes

Pubblicato il 20 aprile 2002 da Alessandro Borri


Lontano dal paradiso: Le magie di Todd Haynes

Cos’è che fa la magia di Todd Haynes, rendendo ogni sua opera un’esperienza unica di ripensamento del fare cinema oggi? Potremmo dire: una riconsiderazione critica dell’estetismo come grimaldello ermeneutico e chiave di lettura dei sentimenti (che accosterebbe le foglie autunnali di Haynes a quelle kitaniane di Dolls ). Far from Heaven in questo è una specie di prolungamento del precedente capolavoro Velvet Goldmine : entrambi, nel loro inesausto splendore, sono atti d’amore purissimi, non solo a Welles o a Sirk, al glam o al mélo, ma ai propri materiali umani e culturali. In tutti e due la visione di un’epoca è totalmente filtrata attraverso un codice espressivo dato, sviscerato intellettualmente e penetrato sentimentalmente. Il mélo anni ’50 come la mitologia glam anni ’70 diventano così cadaveri da sezionare in ogni loro articolazione anatomica (tramite esplosione, e susseguente cristallizzazione, delle latenze), con straordinaria ed enciclopedica perizia, ma - ecco lo scarto risolutivo - da infine resuscitare dalla morte, per restituire loro una forza propulsiva affatto attuale. I due processi sono talmente connaturati da non poter più discernere la carica progettuale da quella emotiva. Un topos melodrammatico come l’addio alla stazione è ricreato con tale perfezione da sciogliere il ghiaccio del compiacimento frigido che ci si aspetterebbe ricoprirlo, per attuare in pieno la sua funzione di meccanismo per la commozione. E’ una sorta di capziosa innocenza che preserva Haynes - che pure potrebbe apparire il più intellettualoide di tutti - dalle secche dell’intelligenza calata dall’alto dei suoi coetanei statunitensi. Perciò, una volta espletate le doverose lodi al clamoroso mimetismo filologico di tutti (dalle luci di Ed Lachman alle scene di Mark Friedberg, dai costumi della grande Sandy Powell alle note di Elmer Bernstein), ciò che conta sottolineare alla fine è come il regista riesca a portare avanti un discorso politico e poetico in forme ogni volta vitalissime. Qui, è un attacco in due mosse alla società pre-rivoluzionaria dell’apparenza congelata, esaltandone la superficie per poi poco a poco strapparla, in una spirale che si inabissa nel profondo, in una caduta libera dalle stelle di Velvet , che invece scrutava le apparenze barocche post-rivoluzione sessuale. Il viaggio parallelo di Cathy e Frank è una discesa verso la perdita dell’innocenza, o piuttosto verso la sua conquista, anche da parte di Haynes, che nell’impossibile rincorsa allo sguardo di Sirk compie un esaltante processo di purificazione. E come Cathy e Frank si guardano quasi dall’esterno, all’inizio, incatenati alle proprie ’colpe’ dagli occhi degli altri, per poi progressivamente liberarsene, così il regista, imponendosi di indagarli a distanza, non può esimersi dall’amarli, infondendo la cerebralità del suo approccio di invenzioni preziosissime (il momento fatale in cui il ralenti accompagna il movimento di Cathy dal nido sicuro della casa all’ufficio di Frank dove scoprirà le fondamenta di falsità su cui ha costruito la sua vita). Insomma Far from Heaven è come una porcellana portata gradualmente al punto di rottura dalla pressione interna dei fiori che la colmano, ma condannata dalla sua stessa bellezza a non infrangersi. Se poi vi ritrovaste alla fine a piangere, foste anche i soli nella sala, beh, Haynes vi ha insegnato cosa significhi. Ve lo auguro di cuore.


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