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LONTANO DAL PARADISO (PERCHE’ NO)

Pubblicato il 13 settembre 2002 da Giovanni Spagnoletti


LONTANO DAL PARADISO (PERCHE' NO)

Piccolo memorandum a me stesso: sul gusto non c’è da discutere - un film piace o non piace, e da questo primo incipit parte poi l’argomentazione critica su cui si costruisce il discorso. Con le conseguenze paradossali che da stesse considerazioni possono sortire delle conclusioni opposte. Dunque si dovrebbe evitare, in linea di principio, la critica di gusto, anche se poi io, voi, noi tutti ci ricadiamo ogni volta... Chi è senza peccato, provi a scagliare la prima pietra. Nel caso di Far From Heaven, comunque, pur da pacifista arciconvinto, mi sento in dovere di armarmi di pesanti sassoni e di scagliare quella proverbiale pietra, per rompere l’omertà cinefila che ha accolto a Venezia e adesso all’uscita italiana, il film di Todd Haynes. Sgombriamo subito il campo dagli equivoci, per non rischiare di essere fraintesi: rispetto alla limacciosa, profonda palude in cui il cinema americano contemporaneo versa, l’opera in questione non appartiene certo al trash quotidiano che si riversa d’oltreoceano - a parte poche, sparute eccezioni - sui nostri schermi colonizzati. Far from Heaven non fa blockbuster giovanilista, al massimo troverà un pubblico di nicchia nell’audience gay, è un’opera di tutto rispetto, di alto livello qualitativo riguardo al cast e alla messa in scena. Come si dice, tanto di cappello! Ma ha, a mio modesto avviso, un gravissimo difetto che me la rende indigesta: quella di essere vuota come una zucca, evanescente, fantasmatico relitto di un genere glorioso che la tv ha condannato a morte, il melodramma. Si tratta dell’ultimo stadio, terminale, di un processo di progressivo svuotamento, tipico della cultura postmodern, che a forza di rifare e citare, ha perso il centro, Faust che ha venduto l’anima a Mefistofele. Insomma lo specchio della vita è diventato specchio dello specchio dello specchio, in un continuo, infinito gioco di rimandi dove la superficie è diventata nucleo, si è resa perfettamente autonoma ed autosufficiente. Per essere poi adorata non nel Tempio delle immagini ma in quello molto più circoscritto e carbonaro della conventicola. In questa mia personale ed isolata intifada, avanzo ancora una seconda ipotesi: chi ama davvero il mélo nelle varie forme che si sono succedute dagli Trenta ad oggi, difficilmente potrà apprezzare fino in fondo il film di Haynes. Perché sia in Sirk (che tutti citano e pochi conoscono veramente) sia nel melodramma sociale di Fassbinder (e persino nel buon Almodovar, anch’esso un maestro indiscusso del genere) non si giocava con la forma per il puro gusto e piacere di essa, ma si andava a scavare nella società e nei suoi incunaboli con l’intento di sceverarne qualcosa, di avanzare qualche ragionevole dubbio sul mondo e sulla vita. Non a caso i migliori melodrammi sono, quasi sempre, contemporanei all’epoca in cui sono stati girati, sono dei discorsi indiretti sul presente. Di tutto ciò non trovo traccia nell’archeologia imbalsamata di Far from Heaven, dove invece avverto, con un certo fastidio, l’esatto contrario: la perfezione algida dell’Indifferenza rispetto ai personaggi e alle situazioni trattate. Puro cesello barocco - ben fatto ma inutile. Né rilevo l’ingenuità sempre necessaria in un’opera d’arte e quel tocco minimo di etica che rende il cinema qualcosa di più di una sequenza ineccepibile di immagini, al di là del Senso profondo. Mi piacerebbe - e non lo dico per il mero gusto della falsa modestia - che qualcuno mi dimostrasse il contrario.

Regia e sceneggiatura: Todd Haynes Montaggio: James Lyons; Scenografia: Mark Friedberg; Costumi: Sandy Powell; Interpreti: Julianne Moore, Dennis Quaid, Dennis Haysbert, Viola Denis, Patricia Clarkson; Produzione: Christine Vachon, Jody Patton per Killer Film/Focus Features/TF1; Origine: Usa/Francia 2002, 107’; Distribuzione: Eagle Pictures

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