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Lost in translation - L’amore tradotto

Pubblicato il 18 dicembre 2003 da Alessandro Izzi
VOTO:


Lost in translation - L'amore tradotto

La triste e mai troppo vituperata pratica della distribuzione italiana colpisce ancora: il bellissimo titolo (Lost in translation) dell’opera seconda di Sofia Coppola (figlia d’arte, si sa, ma ce ne fossero altre di figlie d’arte come questa!), si trasforma, probabilmente per incontrare, in futuro, maggiore favore al botteghino, in un terribilmente meno evocativo L’amore tradotto. Sicchè, già dal titolo italiano, vediamo avverarsi quello che resta uno dei temi fondamentali di tutta la pellicola: il fatto che nel momento in cui due diverse culture si incontrano e cercano, attraverso le parole e i gesti, di comunicare di incontrarsi in qualche modo, il risultato di questa comunicazione è, in qualche misura, sempre parziale, incerto, indefinito. Le due culture che si incontrano nel film della Coppola sono quella americana e quella giapponese. Due mondi apparentemente così simili (specie in certe strutture urbane delle grandi metropoli che sembrano essere immaginate come delle vere e proprie traduzioni architettoniche del mondo occidentale) eppure sostanzialmente così diverse nel modo di vivere e di porsi nei confronti dell’altro. E centro del film è proprio quel gap comunicativo, quella zona d’ombra aperta al fraintendimento che si avvera, tragicamente, nel momento in cui queste due culture avviano, a loro modo un processo comunicativo. Nocciolo fondamentale del film è, insomma, tutto ciò che viene perso nella traduzione, nel tentativo di trasferire, da un linguaggio ad un altro, da un corpo ad un altro, il nucleo fondamentale del proprio stesso essere culturale. A dover essere tradotte non sono, infatti, solo le parole del nostro parlare quotidiano, ma anche tutto il substrato culturale che ne codifica e ne determina l’uso all’interno della nostra stessa cultura. Il film della Coppola analizza questo fenomeno attravero il filtro divertito della commedia, identificandosi profondamente nello sguardo culturalizzato di due personaggi diversi che, con modi diversi, cercano di relazionarsi con la cultura giapponese. Da una parte abbiamo, infatti, un classico attore hollywoodiano, che, abbandonati per qualche tempo i set dei propri blockbuster avventurosi, si concede una remunerativa parentesi nipponica (secondo una pratica sempre più comune presso lo star sistem americano) per realizzare uno spot pubblicitario per una marca di whisky. Il suo è un po’ lo sguardo del turista che si relaziona con i propri auditori a suon di stereotipi (significativa la prima scena dell’arrivo dall’aereoporto) e che resta sostanzialmente impermeabile al mondo che lo circonda, pronto ad accettare solo quello che, bene o male, è, in qualche misura omologabile al suo sistema di vita. Diventa buffo, allora (e la regista ha tocco felice nel sottolineare l’aspetto comico della cosa), vederlo barcamenarsi con i mille problemi del suo essere in quel mondo così diverso. Lo sguardo della macchina si ferma sulle piccole cose (la difficoltà di fare una doccia negli abitacoli piccoli e bassi di un albergo di un paese abituato alle medie stature, i problemi di relazione con un tapit roulant che “parla” solo giapponese) e studia, con il ritmo di una comic strip acidula e felice, l’urto con la quotidineità di un altro paese, di un altro mondo. Il secondo personaggio è, invece, quello di una neo laureata in filosofia che si aggira nel contesto del mondo giapponese in un tentativo più veritiero non di farne parte, ma, almeno, di capirlo. Se l’uomo (uno straordinario Bill Murray) resta, nel corso di tutta la pellicola, fondamentalmente stanziale, fermo in un unico posto (occupa la stessa sedia in un bar, resta immobile nel letto durante le crisi di insonnia derivate dal fuso orario), la donna (una non meno brava Scarlett Johannson), per contro, è in perenne movimento, in continuo spostamento negli arcani misteri del mondo che la circonda. Al suo sguardo la macchina da presa delega tutto il suo aggirarsi tra le strutture urbane e tra i gesti della cultura giapponese. Ma, a ben vedere, il suo muoversi nel mondo è sintomo non solo del suo desiderio di relazionarsi con ciò che la circonda, ma anche e soprattutto dal suo bisogno di sfuggire alla gabbia asfissiante che il suo recente matrimonio (due anni) con un brillante fotografo (Giovanni Ribisi) le ha cucito intorno. Le visite al monastero (una delle scene più emozionanti del film) alla fioreria (una delle più leggere e poetiche) e alla città di Kyoto restano nel cuore dello spettatore per il tono improvvisamente più serio e meditativo. I due personaggi che non tardano ad incontrarsi sono, quindi, due esponenti di due mondi diversi, anche se facenti parte della stessa cultura. Da una parte la profondità insostenibile di un’ex studentessa universitaria che guarda al mondo con gli occhi della filosofa e con le lacrime di una donna che prevede un futuro di insoddisfazione, dall’altra parte la leggerezza non meno insostenibile di un tipico attore americano abituato alle apparenze. Due mondi che si avvicinano reciprocamente attratti (alla donna l’uomo dovrà gli unici spostamenti in città che compie, le uniche avventure del suo soggiorno giapponese), che sfiorano un amore impossibile che si consuma tutta in un abbraccio e in una parola sussurrata che si confonde nel brusio della città, ma che perdono, nella reciproca traduzione del proprio linguaggio, il nocciolo stesso del proprio reciproco mondo interiore. Ed è in questa descrizione che la pellicola della Coppola avvera momenti di profondissima intesità. Per tutti questi motivi Lost in translation resta uno dei pochi film indispensabili di questa stagione cinematografica.

(Lost in translation); regia: Sofia Coppola; sceneggiatura: Sofia Coppola; fotografia: Lance Acord; montaggio: Sarah Flack; musica: Kevin Shields; interpreti: Bill Murray, Scarlett Johansson, Giovanni Ribisi, Anna Faris, Fumohiro Hayashi; produzione: Ross Katz, Sofia Coppola per America Zoetrope Elemental Films Productions; distribuzione: Mikado

[dicembre 2003]

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