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Lucaspielberg e l’immaginario panamericanizzato

Pubblicato il 19 ottobre 2002 da Alessandro Borri


Lucaspielberg e l'immaginario panamericanizzato

“Spielberg (e Lucas) sono i collaborazionisti della panamericanizzazione dell’immaginario collettivo”. Giona A. Nazzaro ha lanciato l’amo su “Sentieri selvaggi”, e noi abbocchiamo con piacere.
Premesso che si può e si deve lottare per la possibilità di un altro cinema, non arrendendosi alle forze dell’omologazione, ci pare che vedere in nuce ne Lo squalo, o in quant’altro, i semi della degenerazione spettacolare marchiata Bay/Bruckheimer, condannando retrospettivamente Lucas e Spielberg, sia un esercizio di dietrologia criticamente infruttuoso. Mentre preferire il post-cinema coerentemente e totalmente plastificato di Armageddon agli entusiasmanti esperimenti di ibridazione immaginativa della nuova trilogia lucasiana e del dittico A.I./Minority Report, è un esercizio di massimalismo non so quanto utile. Ciò non toglie che bisogna studiare Armageddon e affini per capire come si è arrivati fin qui, senza cedere alla condanna aprioristica. Sono film senz’ombra, che hanno venduto al diavolo del commercio l’anima e il corpo, scavalcando qualsiasi categoria estetica (bello/brutto) o morale (buono/cattivo). Come il cibo McDonald’s, le produzioni Bruckheimer o De Laurentiis possono solo essere considerate nella loro efficacia globale, e valutate di conseguenza. Dopo il postmoderno (è tutto già stato detto, c’è solo spazio per la rimasticatura e il pastiche), la nuova corrente propone: è già stato detto tutto, ma non ci importa, tanto ce lo siamo scordato, il magma indistinto del passato non ci interessa. L’eterno presente senza memoria dell’immagine è la nuova frontiera. Tutto ciò è colpa di Lucas e Spielberg?
Le polemiche sul traghettamento - di cui i due sono stati i principali responsabili - del cinema hollywoodiano dalla sua rinascita autoriale negli anni ’70 alla sua svendita industriale con guerre intergalattiche e archeologi dalla frusta facile, è annosa. È un po’ lo stesso ragionamento fatto da Tony Rayns sul passaggio di Tsui Hark e della new wave hongkonghese dall’estremismo degli esordi alla costruzione di un nuovo modello spettacolare e infine “bambinesco”, o addirittura “aberrante”, come dicono i critici moralisti. Laddove ci pare evidente che i cieli di purissima astrazione di Legend of Zu non sono che l’altra faccia (più dichiaratamente sperimentale e meno votata al successo, certo, ma ugualmente profetica e rigorosamente teorica) della nuova trilogia lucasiana, mentre gli eredi statunitensi di Lucas non sono Sommers o Emmerich, ma Lasseter e la Pixar.
Gli è che il sistema si è nutrito di quella linfa che i movie brats portavano a un sistema ormai esangue e infine l’ha sussunto nella sua sfera. Lucas e Spielberg sono riusciti a suon di blockbuster a conservare l’indipendenza: possono fare ciò che vogliono, non sono costretti a patteggiare la loro visione con un sistema produttivo esterno. Gli altri (gli irregolari, da Cimino a Hill, da Romero a Friedkin) hanno dovuto fronteggiare invece i problemi più diversi. Ma soprattutto, da una parte il nuovo cinema indipendente nasce già assorbito nell’industria, come categoria “marchiata” commercialmente: provocatorio, trasgressivo, diverso, e in realtà incapsulato in un meccanismo che ne ritiene le indicazioni più preziose rivendendole al pubblico. Dall’altra la nuova spettacolarità nasce da un retroterra completamente diverso da quello della generazione “nata con le immagini” tra anni ’40 e ’50: nasce da un immaginario televisivo globalizzato, senza coscienza del patrimonio di conoscenza dell’iconosfera che caratterizzava quelli.
Quanto all’occupazione indiscriminata delle sale è sicuramente un fenomeno preoccupante (come i sempre più potenti meccanismi pubblicitari di imposizione delle tendenze dominanti), ma prendere Spielberg (o Benigni) a capro espiatorio per i disastri dei pacchetti distributivi che ci ammorbano con la peggior spazzatura hollywoodiana è anche qui abbastanza pretestuoso. Vorremmo anche noi vedere sui nostri schermi i film della Milkyway o quelli di Kurosawa Kiyoshi, ecc. ecc. Ma forse è anche colpa delle distribuzioni, quelle “culturali” in primis, che alla ricerca del cult e del trend pompano Amélie o chissà quale altra turbata transnazionale, tagliano Hou Hsiao-hsien e non si preoccupano minimamente di andarsi a cercare questo benedetto “altro cinema”. Con questo non ci bendiamo gli occhi in nome dell’intangibilità dell’arte. Chiaramente LucaSpielberg sono stati tra i maggiori promotori della collusione ormai inevitabile tra cinema e marketing, del film come prodotto mediatico, parte di una strategia più ampia di conquista. Fa un po’ tristezza, sì, vedere Obi Wan-kenobi associato a un qualsiasi telefonino, ed è difficile evitare di leggere in sovrimpressione sull’immagine le riunioni dei responsabili del merchandising. Eppure sempre loro, LucaSpielberg (da soli e nella connection Indianajonesiana), hanno indicato una strada allo spettacolo apparentemente semplice e remunerativa ma, in realtà, difficilissima da perseguire senza leggerezza e grazia. L’estetica Brukheimer/Bay è solo il versante dopato del loro immaginario. L’ideologia bisogna averla introiettata, come Spielberg, per farne scaturire sensi molteplici che sfuggono anche al loro creatore (che infatti sembra non accorgersi della contraddizione tra l’appoggio - pur momentaneo e “difensivo” - a Bush, e la potenza metaforica del suo ultimo apologo sulla perdita della libertà personale). Proprio per questo fatichiamo a vedere l’”ultranormatività” di Spielberg, che con i suoi errori, le sue scivolate didattiche, continua a rimescolare immagini - e riflessioni su di esse - con la gioia di un debuttante.
E poi l’inquadratura finale di Minority Report non è degna di Tornatore, bensì di Tarkovskij.

[ottobre 2002]


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