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MACHUCA

Pubblicato il 18 ottobre 2004 da Edoardo Zaccagnini


MACHUCA

Due sono le cose che fanno di Machuca un buon film: la prima è il feeling emancipato e fruttifero che la privata vicenda narrativa riesce a costruire con il grande fatto storico che la contiene. Perché mai la poderosità dei primi anni settanta cileni, si permette di ridicolizzare o nascondere una storia d’amicizia tra bambini di classi sociali diverse, tanto classica e sfruttata da letteratura e cinema, quanto coraggiosa madre di emozioni. Al contrario, il ritmo rispettoso tra i due corpi partorisce una danza godibile, di cui s’apprezza sia la parte romanzata, che quella documentale, portatrice di ingiustizia storica. L’amicizia scolastica, consumata lungo un muro che divide un lussuoso quartiere e una baraccopoli illegale, diventa il soggetto su cui raccontare i sogni politici del socialismo cileno fino alla presa militare di Pinochet. Ma il soggetto inizia a nutrirsi di quel materiale sociale, politico, culturale, che si chiama Storia, tanto da irrobustistirsi e lavorare per questa, rafforzandone a sua volta, la verità e l’importanza. Mattinate, amori, banchi, e spaccati domestici, tengono con successo, caldo il posto alle manifestazioni di piazza, alle dispute, agli scontri, verbali. Le anticipano, le spiegano, creano il climax e fanno cinema. Poi, insieme, si stupiscono e stordiscono davanti all’ assurdità della repressione e della dittatura. Il film tiene a mente la lezione di quel cinema sociale e d’inchiesta, che si serve di vite per evitare l’invisibilità della vittima, per nascondere l’artificio filmico, per raccontare l’incidente assicurando che nell’auto ci sia un uomo vero. Il cinema che romanza i grandi eventi pubblici, e fa camminare volti pensierosi accanto a fanti, treni, carri armati, bandiere. Che poi è tanto cinema, tanta letteratura, quasi tutto il teatro: si pensi al rapporto di Shakespeare con la storia romana, o a quanto la scelta di ambientare la faccenda in un tempo indefinito comporti sacrificio e particolarità dell’opera. Semmai, è il rapporto tra i livelli che si può costruire in tanti modi. Si può puntare sull’ emotività “borghese” che indigna sul momento, per montaggio, musica, e occhi brillanti da tre metri l’uno, oppure si può scegliere un approccio meno fisico e più intellettuale, un distanziamento critico a scopo riflessivo, con cui lo spettatore non esaurisce il compitino con la lacrima della proiezione, ma associa il materiale a quello che già possedeva prima, continuando il gioco di rispondersi e interrogarsi di nuovo. Per carità, non tutte le lacrime sono uguali e non necessariamente la lacrima è un fatto negativo. E’ che esiste un cinema di furbi meccanismi che ipnotizzano, e un cinema per la gente, che informa, racconta, e può far piangere. Anche se non pretende di cambiare il volto al mondo. Machuca è questo, e il secondo motivo per cui s’ apprezza, oltre al suo appartenere con dignità al gruppo dei film che disturbano, arrabbiano, indignano, mentre raccontano con precisione e capacità, è la sua abilità di creare tensione e stati d’animo, il suo invito a farti entrare dentro, fino a lasciarti basito davanti all’improvvisa, quasi dimenticata, tragicità dell’epilogo. Il regista riesce a creare un’onda che spazza via il resto del film, quotidianizzandolo improvvisamente, e lasciandone vivo il ricordo della normale difficoltà. Trent’anni fa in cile, durante una storia d’amicizia; due bambini cileni, mentre gli ideali di libertà venivano asassinati, insieme a Salvador Allende.

[Ottobre 2004]

regia:Andres Wood, sceneggiatura: Roberto Broddsky fotografia: Miguel J. Littin, montaggio: Fernando Pardo, musica: Jose Miguel Miranda, interpreti: Matias Quer, Ariel Mateluna, Manuela Martelli, produzione: Mamoun Hassan, Andres Wood, Grardo Herrero. origine: Spagna Cile, durata: 120’, distribuzione: Ladyfilm

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