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Malala

Pubblicato il 6 novembre 2015 da Stefano Colagiovanni
VOTO:


Malala

Esiste una leggenda del folklore pakistano che narra le gesta di Pashtun Malalai di Maiwand, una donna che, grazie al coraggio e alla forza delle sue convinzioni, seppe ridestare il coraggio e lo spirito di ribellione nell’esercito pakistano in fuga dalla tirannia e dall’oppressione britannica. Poco meno di venti anni fa, un uomo dal temperamento mite, persecutore dell’insegnamento scolastico come cura contro l’asprezza d’animo e la povertà intellettuale, causa del violento fondamentalismo, decise di chiamare la sua unica figlia con lo stesso nome di quella eroina: Malala. A un anno dall’investitura ricevuta con il premio Nobel per la Pace (2014), che ha consegnato Malala ai posteri come la più giovane vincitrice di tale premio in tutta la sua storia, esce nelle sale l’omonimo documentario firmato dal premio Oscar Davis Guggenheim (Una scomoda verità), basato sul romanzo biografico Io sono Malala: girato in poco più di diciotto mesi, trascorsi assieme alla dolce Malala, suo padre Ziauddin, sua madre Toor Pekal e i fratelli Khushal e Atal, il documentario accende un faro sulla vita della giovane adolescente che, all’età di undici anni, accettò l’incarico della BBC di scrivere un blog sotto falso nome, con l’obiettivo di descrivere le oltraggiose condizioni delle donne nella società pakistana, dominata dal terrore del califfato, perpetrato dai fanatici talebani. Guggenheim ripercorre l’ascesa di Malala come simbolo della lotta contro la tirannia nei confronti della libertà intellettuale e culturale, paladina disposta a sacrificare anche se stessa per poter diffondere il suo credo, il romantico desiderio di riuscire, un giorno, a permettere che tutte le donne pakistane possano frequentare scuole e ricevere quell’istruzione che nella società mediorentale è riservata ai solo individui di sesso maschile.

Malala si apre con un breve prologo girato con tecniche d’animazione poco sofisticate, dal tratto infantile, mentre viene narrata da una voce fuori campo la leggenda di Pashtun Malalai di Maiwand e colori pastello dai toni caldi e freddi mischiati per mettere in risalto le diverse cromature si avvicendano per infondere dinamicità alla sequenza (un leitmotiv che si ripeterà ogni volta che occorrerà raccontare un flashback funzionale per lo sviluppo dei protagonisti); il corpo centrale del documentario è composto da brevissime interviste alla giovane Malala, mirate a farci conoscere i suoi gusti, le sue abitudini, i suoi cristallini punti di vista sulla situazione socio-politica del medioriente, mentre la camera di Guggenheim la segue in casa, a scuola, per le strade di Londra (sua nuova casa, per via delle numerose minacce di morte dei talebani), fino alla Casa Bianca. L’obiettivo di Guggenheim è suito chiaro: più che spingere a galla la tensione drammatica diretta conseguenza di una situazione di costante pericolo di vita, al regista inglese interessa fare incontrare Malala con lo spettatore, tratteggiandone l’infinita dolcezza, la spontaneità, l’assordante e perentoria semplicità del suo credo, la sua determinazione. Ne giova anche la figura del padre Ziauddin, insegnante mite e coraggioso, sempre accanto alla sua amata figlioletta, mentore di uno stile di pensiero votato all’istruzione, devoto alla lotta contro la povertà intellettuale e alla tirannia nei confronti dei principi fondamentali dell’uomo. Sullo sfondo, la camera si muove silenziosa tra macerie e polvere, sguardi persi nel vuoto e improvvise detonazioni. Malala vive in un mondo buio, isolato e schiacciato dall’insensatezza e dal fanatismo di un esercito che si professa sacro, ma che impugna le tradizioni e i concetti fondanti di una religione che non è altro che una scellerata giustificazione per dar sfogo alle perfidie delle anime oscure di un esercito di mostri.

E’ impossibile rimanere indifferenti di fronte a un documento che riporta fedelmente, senza trattenersi, però, nello scivolare su qualche tentativo di eccessivo sentimentalismo, la violenza fisica e culturale delle donne in Afghanistan. Così come è impossibile non essere contagiati dalla genuina bellezza di una ragazzina di diciotto anni, destinata, ce lo auguriamo, a cambiare radicalmente il futuro di un popolo. Sperare è lecito. E semplice. Semplice come veder sorridere Malala. Perchè il suo è il più bel sorriso del mondo.


CAST & CREDITS

(He named me Malala); Regia: Davis Guggenheim; sceneggiatura: Davis Guggenheim; fotografia: Erich Roland; montaggio: Greg Finton, Brad Fuller, Brian Johnson; musica: Thomas Newman; interpreti: Malala Yousafzai, Ziauddin Yousafzai, Toor Pekai Yousafzai, Khushal Yousafzai, Atal Yousafzai; produzione: Imagenation Abu Dhabi FZ, Parkes+MacDonald Image Nation, Participant Media; distribuzione: 20th Century Fox Italia; origine: U.S.A., 2015; durata: 87’.


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